Le virtù dell'uomo di desiderio
Estratti dall’opera: Meditation on the Tarot: A Journey Into Christian Hermeticism, London 1982 – Trad. dall’inglese, adattamento e note di Daniele Duretto
Éliphas Lévi dice, a proposito delle tendenze inflazionistiche:
Sì, esiste una scienza che dà all’uomo prerogative quasi sovrumane: eccole quali le trovo elencate in un manoscritto ebraico del secolo XVI:
Éliphas Lévi – Il Dogma e il Rituale dell’Alta Magia – Todi 1921, pp. 51-52.
ALEPH – Vede Dio faccia a faccia senza morirne e parla familiarmente coi sette geni che comandano alla milizia celeste.
BETH – È superiore ad ogni afflizione e ad ogni timore.
GHIMEL – Regna con tutto il cielo e si fa servire da tutto l’inferno.
DALETH – Dispone della salute e della vita propria e così di quella altrui.
HE – Non può essere sorpreso dalla disgrazia, né abbattuto dalle sventure né vinto dai suoi nemici.
VAU – Conosce la causa del passato, del presente e dell’avvenire.
ZAIN – Ha il segreto della resurrezione dei morti e la chiave dell’immortalità.
Si tratta qui di un programma o di una vera esperienza? Se è esperienza, è inflattiva al massimo grado. Se è un programma, chi considera seriamente la sua realizzazione non può evitare di cadere preda dell’inflazione, sia positiva (complesso di superiorità) che negativa (complesso di inferiorità).
Come che sia, l’esperienza o programma di questo manoscritto ebraico del sedicesimo secolo citato da Éliphas Lévi mostra una notevole similitudine con l’esperienza di John Custance [1], da lui descritta nel suo libro Saggezza, Pazzia e Follia: la Filosofia di un Malato Mentale. Il brano è il seguente:
Mi sento così vicino a Dio, così ispirato dal Suo Spirito che in un certo senso io sono Dio. Vedo il futuro, livello l’Universo, salvo l’umanità; sono totalmente e completamente immortale; sono sia maschio che femmina. L’intero Universo, animato e inanimato, passato, presente e futuro, è dentro di me. La vita e tutta la natura, tutti gli spiriti operano e sono connessi con me; tutte le cose sono possibili. In un certo senso sono identico a tutti gli spiriti, da Dio a Satana. Riconcilio il Bene e il Male e creo la luce, l’oscurità, i mondi, gli universi.
John Custance – Wisdom, Madness and Folly: the Philosophy of a Lunatic – London 1951, p. 51.
Lo stato descritto da John Custance è caratteristico di una mania acuta, e l’autore non lo nega in alcun modo. Ci si può chiedere se potrebbe ancora vederla in questo modo, se sapesse che la sua esperienza si trova descritta esattamente allo stesso modo nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, che dice:
Chi ha trovato e riconosciuto l’Ātman [2], in questo viluppo di membra penetrato, costui diventa creatore, del Tutto autore, a lui appartiene il mondo, egli è il mondo stesso.
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad – Quarta lettura, quarto brāhmaṇa, stanza 13.
Possiamo affermare con certezza che questo testo citato dalle Upaniṣad è basato su un’esperienza totalmente differente da quella di John Custance?
Trentotto anni fa conobbi un uomo pacato in età matura che insegnava inglese alla YMCA [3] nella capitale di uno stato balcanico. Un giorno egli mi rivelò di aver conseguito uno stato spirituale che si manifesta attraverso “la visione eterna” e che è quello della consapevolezza dell’identità del Sé con la realtà Eterna del mondo. Passato, presente e futuro – visti dal seggio dell’eternità, dove la sua coscienza dimorava – erano per lui un libro aperto. Non aveva più problemi, non perché li avesse risolti, ma perché aveva conseguito uno stato di coscienza dove erano scomparsi, in quanto di nessuna importanza. Perché i problemi appartengono al dominio dei cambiamenti nel tempo e nello spazio; chi li trascende e giunge al regno dell’eternità e dell’infinito, dove non vi è né moto né cambiamento, è libero dai problemi.
Quando mi parlava di queste cose, i suoi magnifici occhi blu irraggiavano sincerità e certezza. Ma questa radianza lasciò il posto a uno sguardo tetro e adirato non appena posi la questione del valore del “sentimento soggettivo dell’eternità” quando non si è consapevoli o non si è in grado oggettivamente di fare di più per aiutare l’umanità, sia nel progresso spirituale (o di altro tipo), che nell’alleviare la sofferenza fisica, psichica e spirituale. Egli non mi perdonò la domanda e mi voltò le spalle. Fu l’ultima impressione che ebbi di lui in questo mondo (si recò in India, dove poco dopo morì, vittima un’epidemia).
Narro questo episodio della mia vita così che tu possa sapere, caro Amico Sconosciuto, di quando e come furono risvegliati in me i problemi molto seri delle forme e dei pericoli della megalomania spirituale, e di come sono debitore a questa esperienza oggettiva, che mi ha permesso di lavorare sul problema, e di cui sono in procinto di illustrare alcuni degli esiti.
La megalomania spirituale è vecchia come il mondo. La sua origine va ben oltre il mondo terreno, secondo la tradizione millenaria della caduta di Lucifero. Il profeta Ezechiele ne dà una toccante descrizione:
Tu eri al sommo, pieno di sapienza, e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di rubini, di topazi, di diamanti, di crisoliti, di onici, di diaspri, di zaffiri, di smeraldi, e di carbonchi, e d’oro; tamburi e flauti erano al tuo servizio, preparati il giorno che fosti creato. Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Io t’avevo stabilito, tu stavi nel monte santo di Dio, camminavi in mezzo a pietre di fuoco … Il tuo cuore s’è fatto altero per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saviezza a motivo del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re.
Ezechiele 28:12-17
Qui sta l’origine più alta (ovvero celeste) dell’inflazione, del complesso di superiorità e della megalomania. E poiché “ciò che è in basso è come ciò che è in alto”, essa ricorre nella vita umana terrena nei secoli e nelle generazioni. Ricorre soprattutto nelle vite di quegli esseri umani che sono scollegati dall’ambiente terreno ordinario e dallo stato di coscienza che vi appartiene, e che lo trascendono, sia in altezza che in ampiezza o, infine, in profondità. Colui che aspira a un piano più elevato di quello terreno rischia di diventare altèro; colui che cerca l’ampiezza oltre il piano abituale dei doveri e piaceri terreni rischia di considerarsi sempre più importante; colui che cerca la profondità, al di sotto della superficie dei fenomeni della vita terrestre, corre il rischio più grande: quello dell’inflazione, di cui parla C. G. Jung.
Il metafisico astratto, che organizza le parole in base all’ordine che ha scelto, può perdere interesse per il particolare e l’individuale, a tal punto da considerare gli esseri umani quasi come insetti insignificanti. Egli li guarda dall’alto. Visti dalle sue altezze metafisiche perdono tutte le proporzioni e divengono per lui piccoli o quasi futili – mentre lui, il metafisico, è grande, perché è partecipe delle grandi cose metafisiche, che lo rivestono di splendore.
Il riformatore che vuole correggere o salvare l’umanità cade facilmente vittima della tentazione di considerarsi come centro attivo del cerchio passivo dell’umanità. Si sente come incaricato di una missione dal significato universale – quindi si ritiene sempre più importante.
L’occultista praticante, esoterista o ermetista (se non pratica, è solo un metafisico o un riformatore) sperimenta le forze superne che operano oltre la sua coscienza e che qui fanno il loro ingresso. A che prezzo? O al prezzo di un’adorazione supina – oppure al prezzo dell’identificazione del sé con queste forze superiori, che risulta nella megalomania.
Si parla spesso dei pericoli dell’occultismo. La magia nera è di solito il pericolo supremo contro cui l’iniziando viene messo in guardia dai “maestri”; altri (soprattutto quelli che sanno più o meno qualcosa di medicina) vedono il tutto come disordini del sistema nervoso.
Ma l’esperienza di quarantatré anni di occultismo (o esoterismo) pratico mi ha insegnato che il pericolo dell’esoterismo non sono né la magia nera né i disordini nervosi – quantomeno, questi pericoli non si incontrano più spesso tra gli occultisti che tra i politici, gli artisti, gli psicologi, i credenti e gli agnostici. Non sono in grado di citare per nome i maghi neri tra gli occultisti che conosco, mentre non sarebbe troppo difficile fare i nomi di alcuni politici che, per dire, non hanno nulla a che fare con l’occultismo – e che vi sarebbero pure ostili – ma il cui impatto e la cui influenza si accorderebbe fin troppo bene con il concetto classico di “magia nera”. È davvero difficile fare il nome di politici che hanno esercitato un’influenza suggestiva e letale sulle masse, costringendole ed incitandole ad atti di crudeltà, ingiustizia e violenza, di cui ciascun individuo, preso separatamente, sarebbe stato incapace … e che, attraverso la loro influenza semi-magica, hanno deprivato gli individui della loro libertà rendendoli posseduti? E non è l’azione di privare gli uomini della loro libertà morale e di renderli posseduti il vero scopo e la vera essenza della magia nera?
No, caro Amico Sconosciuto, gli occultisti – inclusi coloro che praticano la magia cerimoniale – non sono né maestri né discepoli della magia nera. A dire il vero, sono tra quelli che hanno meno in comune con essa. È vero che – soprattutto gli adepti della magia cerimoniale – sono spesso preda di illusioni e ingannano se stessi e gli altri, ma questo è magia nera? Inoltre, dove si può trovare una classe di esseri umani che non commette mai errori? Persino il Dottor Faust – che fece un patto con il diavolo (e ciò riguarda tutti i “patteggiatori” di questo tipo, antichi e moderni) – fu solo la vittima ingenua di una burla da parte di Mefistofele (che è un furfante ben conosciuto da tutti quelli che hanno conoscenza del “mondo occulto”), perché come si può “vendere” qualcosa che in nessun modo ti appartiene? È la sua anima che il Dottor Faust avrebbe dovuto vendere, ma non sarebbe mai stato in grado di farlo, per quanto il suo patto fosse stato solenne, e non fa alcuna differenza che l’abbia scritto e firmato col sangue piuttosto che con inchiostro normale.
È il modo in cui Mefistofele dà una lezione a quelli che vogliono essere “superuomini”, portando alla luce la puerilità delle loro pretese. E mentre ci si dispiace per l’ingenuità del povero Dottor Faust, si è portati a considerare il “metodo della furbizia” di Mefistofele come, in ultima analisi, salutare. Perché ciò che fa Mefistofele (e si potrebbero citare esempi più recenti di questo metodo) è di mostrare la ridicolaggine e l’assurdità delle aspirazioni e delle pretese dei cosiddetti “superuomini”. Dice Dio riguardo a Mefistofele:
Di tutti gli spiriti che negano, quello che mi dà minor noia è il ribaldo.
Goethe – Faust, Prologo in Cielo – Parte I
Non condanniamo dunque il ribaldo del mondo spirituale, e soprattutto non facciamoci impaurire da lui. Né condanniamo il Dottor Faust, nostro fratello, accusandolo di magia nera – è, piuttosto, puerile credulità ciò di cui può essere accusato, se deve essere accusato. In ogni caso, egli fu cento volte più innocente, nei confronti dell’umanità, dei nostri contemporanei che hanno inventato la bomba nucleare … buoni cittadini e scienziati.
No, nessuna magia nera né i disordini nervosi costituiscono i rischi specifici dell’occultismo. Il suo rischio principale – di cui, comunque, non ha il monopolio – è designato da tre termini: complesso di superiorità, inflazione, megalomania.
Infatti, un occultista (che non sia un principiante) che non abbia conseguito questa malattia morale, o che in qualche momento del passato non l’abbia subita, è raro. La tendenza alla megalomania si manifesta ovunque tra gli occultisti. Decenni di relazioni personali, in aggiunta alle letture di testi occulti, me lo hanno confermato. Vi sono molti livelli di questo difetto morale. Esso si manifesta all’inizio come sicurezza di sé e una certa informalità con cui si parla di cose sacre ed elevate. Poi si esprime come “conoscere meglio” e “conoscere tutto”, cioè come l’atteggiamento di un maestro nei confronti degli altri. Infine, si manifesta come infallibilità implicita o anche esplicita.
Non voglio citare passaggi della letteratura occulta, né fare nomi, e nemmeno menzionare fatti biografici che riguardano occultisti noti, per provare ad illustrare questa diagnosi. Non sarebbe difficile per te, caro Amico Sconosciuto, trovare prove in abbondanza. La mia intenzione qui è di confutare, da un lato, le false accuse all’occultismo, e dall’altra mostrare il vero pericolo che esso presenta – così che ci si possa mettere in guardia. Ma cosa si dovrebbe fare per contrastare il pericolo, al fine di conservare il proprio benessere morale?
L’antico detto “ora et labora” è l’unica risposta che sono stato in grado di trovare. La preghiera e il lavoro costituiscono l’unico rimedio sia curativo che di profilassi che conosco contro le illusioni megalomaniache. È necessario venerare ciò che è sopra di noi ed è necessario partecipare umanamente al dominio dei fatti oggettivi per essere in grado di tenere in scacco le illusioni riguardanti ciò che si è e ciò che si è in grado di fare. Perché chiunque sia consapevole di elevare la sua preghiera e le sue meditazioni al livello della pura devozione sarà sempre cosciente della distanza che separa (e che allo stesso tempo unisce) il devoto all’oggetto della devozione. Egli, quindi, non sarà tentato di autoincensarsi, causa in ultima analisi della megalomania. Egli avrà sempre in vista la differenza tra se stesso e l’oggetto della devozione. Non confonderà ciò che egli stesso è con colui che è l’essere venerato.
D’altro canto, colui che lavora, cioè che prende parte agli sforzi umani, con in vista risultati oggettivi e verificabili, non cadrà facilmente preda all’illusione in merito a ciò che egli è in grado di fare. Quindi, per esempio, un medico praticante incline a sovrastimare il suo potere di guarigione imparerà presto a conoscere i limiti reali della sua capacità attraverso l’esperienza data dai suoi fallimenti.

Jakob Böhme [4] era un calzolaio, e fu illuminato.
Quando ebbe l’esperienza dell’illuminazione (“ … la Porta mi fu aperta, così che in un quarto d’ora osservai e conobbi più che se avessi frequentato l’università per molti anni …”, scrisse in una lettera indirizzata all’esattore Lindner), dove egli “riconobbe l’Essere degli Esseri, il firmamento e l’abisso …” (stessa lettera), in nessun modo ne concluse che, come calzolaio, potesse di lì in avanti fare più dei suoi colleghi di mestiere, o che potesse fare più di quanto facesse prima della sua illuminazione. D’altro canto, per mezzo dell’illuminazione imparò a conoscere la grandezza di Dio e del mondo (“ … dal che ero totalmente sconvolto, senza sapere cosa mi fosse accaduto, e immediatamente il mio cuore iniziò a lodare Dio” – stessa lettera), e ciò lo riempì di venerazione.
Furono quindi il lavoro e la venerazione di Dio a proteggere il benessere morale di Jakob Böhme. E qui mi si consenta di aggiungere che la mia esperienza nel dominio dell’esoterismo mi ha insegnato che ciò che fu salutare nel caso di Böhme lo è anche, senza alcuna eccezione, per tutti coloro che aspirano alle esperienze soprasensibili.
Preghiera e lavoro – ora et labora – costituiscono dunque la conditio sine qua non per la pratica esoterica, al fine di tenere sotto scacco le tendenze alla megalomania. Fin qui è per tenerla sotto controllo, ma per ottenere l’immunità dalla malattia morale è necessario più di questo. Si deve avere la vera esperienza di un incontro reale con un essere superiore. Per “incontro reale” non intendo il “Grande Sé”, né il sentimento più o meno vago della “presenza di un’entità elevata”, e nemmeno l’esperienza di un “diluvio di ispirazione” che ci riempie di vita e di luce – no, quello che intendo per “incontro reale” non è nient’altro che un vero e proprio incontro reale, ovvero faccia a faccia. Può essere spirituale – un faccia a faccia in una visione – o concreto in senso fisico. Santa Teresa d’Avila (per citare solo uno dei molti esempi conosciuti) incontrò il Maestro, conversò con lui, chiese e ricevette da lui consigli e istruzioni su un piano spirituale oggettivo (sì, la spiritualità non è esclusivamente soggettiva – può anche essere oggettiva). E certamente Papus e il suo gruppo di occultisti incontrarono Philippe de Lyon sul piano fisico. Questi sono due esempi di ciò che intendo per incontro reale.
Ora, chi ha avuto l’esperienza di un incontro reale con un essere superiore (un santo o un giusto, un Angelo o un altro essere delle gerarchie, la Vergine Maria, il Maestro …) diviene, per questo stesso fatto, immune dalla tendenza verso la megalomania. L’esperienza di essere stato faccia a faccia con un Grande Uno include necessariamente la completa guarigione e l’immunità da qualunque tendenza verso la megalomania. Nessun essere umano che ha visto e udito sarà più in grado di fare di se stesso un idolo. Di più: il criterio vero e definitivo per giudicare la realtà di queste cosiddette esperienze “visionarie”, la loro autenticità o falsità, è dato dall’effetto morale di queste esperienze, segnatamente se esse rendono il destinatario più umile o più presuntuoso. L’esperienza dell’incontro con il Maestro rese Santa Teresa ancora più umile. L’esperienza dell’incontro con Philippe de Lyon sul piano terreno rese più umili anche Papus e i suoi amici occultisti. Ora, queste due esperienze – sebbene alquanto diverse rispetto al soggetto e all’oggetto – furono autentiche. Con ciò Papus non si sbagliò sulla grandezza spirituale di colui che riconobbe come il suo “maestro spirituale”, né, ancor meno, si sbagliò Santa Teresa sulla realtà del Maestro, che vide e udì parlare.
Caro Amico Sconosciuto, leggi la Bibbia e troverai un gran numero di esempi di questa legge, che si può esprimere così: l’esperienza autentica del Divino rende umili; chi non è umile non ha un’esperienza autentica del Divino. Prendete gli apostoli che “videro e udirono” il Maestro e i profeti che “videro e udirono” il Dio d’Israele – non troverete tra loro alcuna traccia di una tendenza all’orgoglio come potreste certamente trovarla tra i molti insegnanti gnostici che (di conseguenza) non “videro e non udirono”.
Ma se è vero che è necessario avere “visto e udito” per imparare a fondo la lezione dell’umiltà, cosa si può dire delle persone chi sono “naturalmente” umili e che non hanno “visto e udito”?
Senza pregiudicare altre risposte che possono essere valide e apprezzabili, la risposta che mi sembra corretta è che tutti coloro che sono umili hanno certamente visto e udito – non importa dove o quando, e se lo ricordano o no. L’umiltà può essere il risultato della memoria vera (cioè non intellettuale) dell’anima riguardo a un’esperienza spirituale prenatale, o può essere dovuta alla memoria di un’esperienza notturna avuta durante il sonno e che rimane nel dominio dell’inconscio o, infine, può essere l’effetto di un’esperienza che è presente consciamente o inconsciamente ma che è non riconosciuta da se stessi o da altri. Perché l’umiltà, come la carità, non è una qualità naturale della natura umana. La sua origine non può in alcun modo trovarsi nel dominio dell’evoluzione naturale, perché non è possibile concepirla come il frutto della “sfida per l’esistenza”, cioè della selezione naturale e della sopravvivenza del più forte a spese del più debole. Perché la scuola della sfida per l’esistenza non produce gente umile; produce solo persone difficili e combattenti di ogni tipo. L’umiltà è quindi una qualità che dev’essere data dall’azione della grazia, ovvero dev’essere un dono dall’alto. Ora, gli “incontri reali, faccia a faccia” di cui qui si parla sono sempre, senza eccezione, eventi scaturiti dalla grazia, essendo incontri dove un essere superiore si avvicina a un essere inferiore. La trasformazione che ebbe Saulo, il fariseo, in Paolo, l’apostolo, non fu dovuta ai suoi sforzi; fu un atto dell’Uno che egli accolse. È lo stesso con tutti gli incontri “faccia a faccia” con gli esseri superiori. La nostra parte è solo nel “cercare” “bussare” e “pregare”, ma l’atto decisivo viene dall’alto.
Ritorniamo ora all’Arcano “Il Carro”, il cui significato tradizionale è “vittoria, trionfo, successo”.
Questo significato deriva naturalmente dal portamento del personaggio (il cocchiere) e non presenta alcuna difficoltà.
J. Maxwell – Le Tarot – Paris 1933, p. 87
Ciononostante, una difficoltà è presente, vale a dire la risposta alla domanda: Questa Carta significa un avvertimento o un ideale, o piuttosto entrambi?
Sono incline a vedere in tutti gli Arcani del Tarocco un avvertimento e simultaneamente uno scopo che dev’essere conseguito – almeno, questo è quanto ho appreso da quarant’anni di studio e meditazione sul Tarocco.
Così Il Mago è un avvertimento contro i giochi di prestigio intellettuali del metafisico, sordo all’esperienza, e contro ogni tipo di ciarlataneria – e allo stesso tempo insegna la “concentrazione senza sforzo” e l’utilizzo del metodo analogico.
La Papessa ci mette in guardia dai pericoli dello gnosticismo nell’insegnarci la disciplina della vera gnosi.
L’Imperatrice evoca i pericoli della medianità e della magia rivelandoci i misteri della magia sacra.
L’Imperatore ci avvisa sui pericoli della volontà di potenza e ci insegna il potere della croce.
Il Papa ci fronteggia con il culto umano della personalità che culmina nel pentagramma magico, e vi oppone la povertà consacrata, l’obbedienza al Divino e la magia delle cinque ferite.
L’Innamorato ci mette in guardia dalle tre tentazioni e ci insegna i tre voti sacri.
Infine, Il Carro ci mette in guardia dai pericoli della megalomania e ci insegna il vero trionfo conseguito attraverso il Sé.
Il vero trionfo conseguito attraverso il Sé – ciò sta a significare l’esito coronato da successo del “processo di individuazione” secondo C. G. Jung, o l’esito coronato da successo dell’opera di vera liberazione, che è frutto della catarsi (purificazione) e che precede il phōtismos (gr. φωτισμός, illuminazione), e che è seguito dalla hénōsis (gr. ἕνωσις, unione), secondo la tradizione iniziatica occidentale.
Il “trionfatore” del Carro può quindi significare sia la persona malata che soffre di megalomania sia l’uomo che è passato attraverso la catarsi o purificazione, il primo dei tre stadi della via dell’iniziazione.
La tesi che qui sto portando avanti è questa: proprio come gli altri Arcani del Tarocco, anche il settimo Arcano esprime un doppio significato. Il personaggio della settima Carta rappresenta allo stesso tempo il “trionfatore” e il “Trionfatore” – il megalomane e l’uomo integrato, maestro di se stesso.
L’uomo integrato, maestro di se stesso, dominatore su tutte le avversità – chi è? È colui che tiene in scacco le quattro tentazioni – cioè le tre tentazioni nel deserto descritte nel Vangelo oltre alla tentazione che le sintetizza: la tentazione dell’orgoglio, il centro del triangolo delle tentazioni – e che è, quindi, maestro dei quattro elementi che compongono il veicolo del suo essere: fuoco, aria, acqua e terra. Maestro dei quattro elementi – vale a dire: un essere creativo dal pensiero chiaro, fluido e preciso (esseno la creatività, la chiarezza, la fluidità e la precisione le manifestazioni dei quattro elementi nel dominio del pensiero). Inoltre, ha un cuore caldo, grande, affettuoso e fedele (essendo il calore, la magnanimità, la sensibilità e la fedeltà le manifestazioni dei quattro elementi nel dominio del sentimento). C’è infine da aggiungere che egli manifesta ardore (“l’uomo di desiderio” [5]), pienezza, flessibilità e stabilità nell’espressione della sua volontà (dove i quattro elementi si rivelano come intensità, portata, adattabilità e fermezza). Per riassumere, si può dire che il maestro dei quattro elementi è l’uomo di iniziativa, che è sereno, socievole e risoluto. Rappresenta le quattro virtù naturali della teologia cattolica: prudenza, forza, temperanza e giustizia; o ancora le quattro qualità del Śaṅkarācārya [6]: viveka (discernimento), vairāgya (serenità [7]), la retta condotta, e il desiderio di liberazione. Qualunque formulazione si possa dare delle virtù in questione, si tratta sempre dei quattro elementi o delle proiezioni del sacro nome – il Tetragrammaton – nella natura umana.

Nella Carta del settimo Arcano, le quattro colonne che sostengono il baldacchino sul carro condotto da due cavalli rappresentano quindi i quattro elementi considerati nel loro senso verticale, cioè nel loro significato analogico attraverso i tre mondi – il mondo spirituale, il mondo animico e il mondo fisico.
E qual è il significato del baldacchino sostenuto dalle quattro colonne?
La funzione di un baldacchino, considerato come oggetto materiale, è di proteggere la persona che vi si trova sotto. Ha quindi la funzione di un tetto. Nel suo senso spirituale, a cui si giunge per via analogica, il baldacchino che sovrasta l’uomo che indossa una corona regale gialla esprime due cose contrastanti: che l’uomo incoronato è un megalomane in una condizione di “splendido isolamento”, escluso dai cieli per via del baldacchino, oppure l’uomo incoronato è un iniziato ai misteri dello spirito che non si identifica con il paradiso, essendo consapevole della differenza che esiste tra se stesso e ciò che gli sta sopra. In altre parole, il baldacchino indica i fatti e le verità che stanno alla base sia dell’umiltà che della megalomania. L’umiltà, essendo la legge della salute spirituale, implica consapevolezza della differenza e della distanza tra il centro della coscienza umana e il centro della coscienza divina. Egli ha una “pelle” – o un baldacchino, se preferite – nella sua coscienza (proprio come il corpo umano ha una pelle), che separa l’umano dal Divino, e che allo stesso tempo li unisce. Questa “pelle spirituale” protegge il benessere spirituale dell’uomo non consentendogli di identificarsi ontologicamente con Dio, o di fargli dire “io sono Dio”. (cfr. Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad – Prima lettura, quarto brāhmaṇa, stanza 10: “Io sono brahman”), ma allo stesso tempo consentendogli la relazione del respiro, che unisce e separa (che non è mai alienazione) e che costituisce la vita d’amore. La vita d’amore consiste sempre nell’unirsi e separarsi con la consapevolezza della non identità, in analogia con il processo respiratorio di inspirazione ed espirazione. Ciò è espresso in modo impareggiabile in un estratto dal Salmo 43, che è la sesta frase della Messa:
Emitte lucem tuam, et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua.
Salmi 43:3
Manda la tua luce e la tua verità; mi guidino esse, mi conducano al monte della tua santità, nei tuoi tabernacoli.
Sì, la luce della tua presenza (che ci avvicina) e la verità che ricevo in me attraverso la riflessione (che ci separa) ci conduca verso il tabernacolo.
Tabernacoli … non sono queste le tende, le tettoie, i baldacchini sotto i quali l’uomo è unito in amore con il Divino, senza identificarsi con esso o assorbito da esso? Non sono questi tabernacoli fatti di “pelle di umiltà”, che sola ci protegge dal pericolo di uccidere l’amore attraverso l’identificazione ontologica – cioè l’identificazione dell’essere umano con l’essere divino (“tutto ciò [che è] è, invero, il brahman”, Māṇḍūkya Upaniṣad, 1.2; “la conoscenza [di per sé] è il brahman [medesimo]”), Aitareya Upaniṣad, 5.3) [8] – e quindi proteggendoci dal pericolo della megalomania spirituale (cioè dall’arrogarci il vero essere di Dio invece della sua immagine)?
Vi sono tre forme di esperienza mistica: l’esperienza di unione con la Natura, quella dell’unione con il Sé trascendentale umano, e l’unione con Dio. Il primo tipo di esperienza è quello della cancellazione della differenza tra la vita psichica dell’individuo e la Natura circostante. È quella che Lévy-Bruhl [9] chiama “partecipazione mistica”, di cui coniò il concetto studiando la psicologia dei popoli primitivi. Questa nozione designa lo stato di coscienza dove la separazione tra il soggetto conscio e l’oggetto del mondo esterno scompare, e dove il soggetto e l’oggetto divengono uno. Questo tipo di esperienza è alla base non solo dello sciamanesimo e del totemismo dei primitivi, ma anche della cosiddetta coscienza “mitogenica”, che è la sorgente naturale dei miti, e anche dell’ardente desiderio di poeti e filosofi di unirsi alla Natura (ad esempio, Empedocle [10] si gettò nel cratere dell’Etna al fine di unirsi agli elementi della Natura). L’effetto di peyote, mescalina, hashish, alcol, ecc., può qualche volta (ma non sempre, e non con tutti) produrre stati di coscienza analoghi a quelli della “partecipazione mistica”. Il tratto caratteristico di queste forme di esperienza è l’intossicazione, cioè la fusione temporanea di se stessi con forze esterne alla propria autocoscienza. Le orge dionisiache dell’antichità erano basate sull’esperienza della “intossicazione sacra” dovuta alla cancellazione delle differenze tra il sé e il non sé.
La seconda forma di esperienza mistica è quella del Sé trascendentale. Essa consiste nel separare il sé empirico ordinario dal Sé superiore, che è oltre tutti i moti e a tutto ciò che appartiene al dominio spaziotemporale. Il Sé superiore è quindi sperimentato come libero e immortale.
Se il “misticismo della Natura” è caratterizzato dall’intossicazione, quello del Sé, per contro, ha il tratto caratteristico di un “rinsavire” progressivo, al fine di una completa sobrietà. Una filosofia basata sull’esperienza mistica del Sé, che la rappresenta nel suo modo più puro e meno distorto dall’aggiunta di speculazioni intellettuali azzardate, è quella della scuola indiana del Saṃkhyā. Qui il puruṣa individuale è sperimentato come separato dalla prakṛti (cioè dai moti spaziotemporali), libero e immortale. Per quanto alla base della filosofia Vedānta si trovi la stessa esperienza, i suoi seguaci non sono soddisfatti dell’esperienza immediata che non insegna niente di più, e niente di meno, che il vero Sé dell’uomo è libero e immortale, e quindi aggiungono il postulato che il Sé superiore è Dio (“tutto ciò [che è] è, invero, il brahman”, Māṇḍūkya Upaniṣad, 1.2 [11]). La filosofia Saṃkhyā, per contro, rimane entro i limiti dell’esperienza del Sé superiore in quanto tale e in nessun modo nega la pluralità dei puruṣa (cioè la pluralità degli Io superiori liberi e immortali), né il puruṣa individuale si eleva alla dignità dell’Assoluto – risultando in una filosofia considerata ateistica. È così se l’ateista fa una confessione sincera: non ho avuto esperienza di null’altro che dell’Io libero e immortale; convivendo con questa esperienza, che posso dire in buona fede? La filosofia Saṃkhyā non è una religione, e quindi non merita di essere classificata come “ateista”, non più della psicologia moderna della scuola junghiana, per fare un esempio. D’altro canto, si può considerare come prova della fede in Dio attribuire al Sé superiore dell’uomo la dignità dell’Assoluto?
Il terzo tipo di esperienza mistica [12] è quella del Dio vivente, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe della tradizione giudaico-cristiana, il Dio di Sant’Agostino, di San Francesco, di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce nella tradizione cristiana, il Dio della Bhagavadgītā, Rāmānuja [13], Madhva [14] e Caitanya [15] nella tradizione induista. Si tratta qui dell’unione con Dio attraverso l’amore, il che implica dualità in sostanza e unicità in essenza.
Questa esperienza ha come tratto caratteristico principale la sintesi tra l’intossicazione del misticismo della Natura e la sobrietà del misticismo del Sé superiore. Il termine coniato dalla tradizione per esprimere lo stato dove l’ardente entusiasmo e la pace profonda si manifestano simultaneamente è “beatitudine”, o “visione beatifica” (beatitudo, visio beatifica). La visione beatifica implica, da una parte, la dualità dell’osservatore e dell’osservato, e dall’altra la loro unione o unità intrinseca nell’amore. Ecco perché questo termine esprime in un modo meravigliosamente chiaro e preciso l’essenza dell’esperienza mistica teistica: l’incontro dell’anima con Dio, faccia a faccia, nell’amore. E questa esperienza è tanto più elevata quanto più grande è la differenza, e quanto più perfetta è l’unione. Per tale ragione la Sacra Cabala mette al centro dell’esperienza spirituale quella del Sacro Volto (Arikh Anpin) o l’Antico dei Giorni, e questo è anche il motivo per cui essa insegna che l’esperienza suprema dell’essere umano – oltre che la forma più elevata di morte per un mortale – si consegue quando Dio abbraccia l’anima umana. Questo è ciò che dice il Sepher Yetzirah:
Quando Abramo nostro padre, possa riposare in pace, venne, egli guardò, e vide, e capì, ed esplorò, ed incise, e intagliò, ed ebbe successo. Il Signore Supremo gli si rivelò, lo baciò sulla fronte e lo chiamò “Abramo, mio amato”, ed Egli fece un patto eterno con lui e la sua progenie.
Sepher Yetzirah 6:7
E San Giovanni della Croce parlò delle sue esperienze della Presenza divina nei tabernacoli solo nel linguaggio dell’amore.
Le tre forme di esperienza mistica hanno le loro “leggi igieniche”, o i loro “tabernacoli” o “pelli”. Esse dipendono dalla legge della temperanza o misura. In caso contrario, la collera della mania acuta, della megalomania e la completa alienazione minacciano i loro adepti. Il pettorale, il baldacchino e la corona sono i tre simboli per le misure salutari che si riferiscono ai domini dell’esperienza del misticismo della Natura, del misticismo umano e del misticismo divino.
Ora, il “trionfatore” del settimo Arcano indossa un pettorale, è in piedi sotto un baldacchino ed è incoronato. Questo è il motivo per cui non si perde nella Natura, non perde Dio nell’esperienza del Sé supremo e non perde il mondo sperimentando l’amore di Dio. Egli tiene in scacco i pericoli della collera, della megalomania e dell’esaltazione. Egli è sano.
Il “trionfatore” del settimo Arcano è il vero adepto dell’ermetismo, ovvero un adepto del misticismo, della gnosi e della magia – divina, umana e naturale. Egli non corre. Sta in piedi. Non è seduto immerso nella meditazione. Impugna uno scettro che usa per imbrigliare i due cavalli (uno blu e uno rosso) che trainano il suo cocchio. Non è assente, immerso nell’estasi dell’esaltazione. È in viaggio e avanza, al tempo stesso stando in piedi sul suo veicolo. I due cavalli, quello blu e quello rosso, lo sollevano dallo sforzo di camminare. Le forze istintive del “sì” e del “no”, attrazione e repulsione, sangue arterioso e sangue venoso, fiducia e sfiducia, fede e dubbio, vita e morte e, infine, “destra” e “sinistra” – simboleggiate dalle colonne di Jakin e Boaz – sono divenute in lui forze motivanti, obbedienti al suo scettro. Esse lo servono volontariamente perché egli è il loro vero maestro. Egli crede in loro e loro credono in lui – questa è la signoria secondo l’ermetismo. Perché nell’emetismo signoria non significa il soggiogamento di ciò che è in basso da parte di ciò che è in alto, ma piuttosto l’alleanza tra superconscio, coscienza e istinto – o subconscio. Questo è l’ideale ermetico di pace nel microcosmo – il prototipo di pace in un’umanità divisa in razze, nazioni, classi e fedi.
Questa pace è equilibrio o giustizia, dove a ciascuna forza caratteristica che gioca la sua parte nel microcosmo è assegnato il posto che gli spetta nella vita dell’intero organismo psicofisico.
L’equilibrio o giustizia è il soggetto dell’Arcano successivo – l’ottavo Arcano, La Giustizia – che sarà il tema della prossima Lettera.
Riassumendo l’insegnamento pratico (perché è sempre dell’aspetto pratico che ci occupiamo in primo luogo) del settimo Arcano del Tarocco, si può dire che il “trionfatore” è un “convalescente”, cioè che il “trionfatore” ha trionfato sulla malattia e lo squilibrio – spirituale, psichico e fisico – vale a dire che è allo stesso tempo “retto”, trionfando sulle quattro tentazioni rimanendo fedele ai tre voti sacri, così come è giunto alla loro radice e sintesi: l’umiltà. A sua volta, si può dire che è un “uomo liberato” o “maestro”. È libero dalle influenze planetarie – riscoperte ai nostri tempi da C. G. Jung nella veste di “inconscio collettivo” con le sue sette (!) forze psichiche principali o “archetipi”. Egli è maestro degli “archetipi” (le influenze astrologiche planetarie, gli arconti degli antichi gnostici), ovvero l’”ombra”, il “personaggio”, l’”animus”, l’”anima”, il “vecchio saggio” o “padre”, la “madre” e anche il “sé”, sopra il quale vi è il “Sé dei Sé” o Dio.
In altre parole, egli tiene in scacco le influenze, nella misura in cui sono minacciose, di Luna, Mercurio, Marte, Venere, Giove, Saturno e pure del Sole, sopra cui egli sa che esiste “il Sole dei soli” o Dio. Egli non è senza pianeti, archetipi o arconti (proprio come non è senza terra, acqua, aria e fuoco) perché questi sono inclusi in quello che è chiamato “corpo astrale” (o corpo psichico) nell’occultismo. Il corpo psichico è un corpo in quanto è composto di inconscio collettivo o forze psichiche “planetarie”. Sono i pianeti astrologici (o gli archetipi di Jung) a formare la “sostanza del corpo psichico o astrale … maestro del corpo astrale – significa dire maestro delle sette forze che vi sono incluse, mantenendole in equilibrio.
Qual è l’ottava forza che porta in equilibrio le sette forze del corpo astrale?
È l’ottavo Arcano del Tarocco, La Giustizia, che risponde a questa domanda.
[1] John Custance è lo pseudonimo usato dall’autore del libro citato nel descrivere le esperienze autobiografiche della depressione e degli stati di follia che lo portarono a numerosi ricoveri negli ospedali psichiatrici, per un periodo di quindici anni. Il libro esplora gli stati visionari ed allucinatori che l’autore dovette affrontare, oltre ai sottintesi filosofici delle sue psicosi.
[2] Nella citazione data da Tomberg, il termine Ātman viene sostituito con Anima. Nel contesto delle Upaniṣad, Ātman equivale a Brahman, l’Assoluto, da cui sorge tutta l’esistenza.
[3] YMCA (Young Men’s Christian Association) è una federazione non governativa diffusa in tutti i continenti, fondata nel 1844 da Sir George Williams, filantropo e uomo d’affari londinese. Il suo scopo è quello di mettere in pratica i valori cristiani nello sviluppo del corpo, della mente e dello spirito, attraverso attività fisiche, educative, religiose e di sostegno ai bisognosi. Attualmente conta circa 64 milioni di beneficiari in 120 paesi.
[4] Jakob Böhme (1575-1624) fu un filosofo, mistico e teologo luterano. In gioventù fu apprendista calzolaio, ma presto iniziò a viaggiare e a leggere le opere di Paracelso e altri, pur non avendo ricevuto alcuna educazione formale. Nel 1599, al termine dei suoi spostamenti, acquistò la sua propria bottega, si sposò ed ebbe sei figli. A partire dal 1600 Böhme iniziò a sperimentare delle visioni, dove percepiva l’unità del cosmo e si sentiva vocato a Dio. Dodici anni dopo le prime visioni iniziò a scrivere le sue numerose opere, che gli procurarono non pochi problemi con le autorità religiose dell’epoca (compreso l’esilio), per via delle sue interpretazioni cosmologiche non ortodosse. Tra i suoi numerosissimi scritti ricordiamo Morgenröte im Aufgang (l’Alba del Giorno in Oriente), conosciuto come Aurora, De Signatura Rerum, Mysterium Magnum, e la sua ultima opera, 177 Questioni Teosofiche.
[5] Pare essere un riferimento all’uomo di desiderio dell’opera omonima di Louis Claude de Saint-Martin, cioè colui che, sfuggendo alle brame, ravviva in sé il desiderio del divino per avviarsi verso la strada dell’integrazione, lo stato adamitico prima della caduta. Desiderio è qui inteso dunque nel significato platonico di aspirazione a conoscere la vera natura delle cose.
[6] Śaṅkarācārya è la scuola filosofica fondata sulle opere e sui commentari di Śaṅkara (c. 788- c. 820 d.C.), il cui tema centrale verte sull’identificazione tra ātman e Brahman, il sé e l’Assoluto, secondo l’insegnamento dei Veda.
[7] Più esattamente vairāgya è la calma che deriva dallo stato di non attaccamento e di rinuncia, o di disinteresse ascetico.
[8] Tomberg fornisce per questi versi una diversa traduzione, rispettivamente “quest’anima è Dio” e “la coscienza è Dio”.
[9] Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) è stato un antropologo, sociologo ed etnologo francese. Fu promotore del concetto di “partecipazione mistica” come forma mentale dei popoli “primitivi”, in contrapposizione al predominio del pensiero logico e riflessivo dell’umanità moderna.
[10] Empedocle (c. 494- c. 434 a.C.) fu un filosofo presocratico greco, autore della teoria cosmogonica sui quattro elementi che formano tutte le strutture del mondo; fu anche un sostenitore della dottrina della metempsicosi. Varie leggende si intrecciano in relazione alla sua morte. Secondo alcuni autori visse 109 anni, ma il mito lo vede buttarsi tra le fiamme dell’Etna per acquisire l’immortalità, o venire rigettato dall’eruzione per essere portato nei cieli.
[11] Vedi n. 8.
[12] Qui Tomberg fa una nota dove spiega che il termine “mistico” unisce i significati sia della vera e propria esperienza mistica che di quella gnostica.
[13] Rāmānuja (c. 1017-1137 d.C.) fu un teologo, filosofo ed esegeta induista, esponente del Viśiṣṭādvaita, ovvero del cosiddetto non-dualismo qualificato: solo Brahman è la Realtà Suprema, ma è caratterizzato dalla molteplicità degli esseri senzienti e non senzienti. I suoi insegnamenti furono di ispirazione al movimento devozionale Bhakti.
[14] Madhva o Madhvācārya (c. 1238-1317 d.C.) fu un teologo e filosofo induista, propugnatore della scuola Dvaita (dualista) del Vedānta. Sostanzialmente la sua filosofia sosteneva che Ātman e Brahman sono differenti, che solo Viṣṇu (Brahman) è la realtà trascendente, e che esiste una pluralità di anime. Con ciò si contrapponeva recisamente al puro non-dualismo dell’Advaita Vedānta.
[15] Caitanya Mahāprabhu (c. XVI sec.) fu un mistico e un santo indiano considerato un avatar di Kṛṣṇa. Non lasciò praticamente nulla di scritto, limitandosi a manifestare la sua fede e il suo amore per Kṛṣṇa; tuttavia, la sua influenza fu profondissima, anche nei secoli successivi alla sua morte. Fu un proponente della filosofia vedantica del Acintyabhedābheda, traducibile come “inconcepibile unità e differenza”. Questa filosofia cerca di conciliare il mistero di Dio (Viṣṇu) come Uno e come differente dalla sua creazione, utilizzando l’analogia del Sole e dei suoi raggi: qualitativamente essi non sono diversi, ma lo sono quantitativamente, così come lo sono le anime rispetto all’Essere supremo.
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