La chiave degli Arcani Maggiori
Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né d’onde viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito.
giovanni 3:8
In questa notte felice, in segreto, non visto, né alcunché veduto. Senza altra luce o guida, salvo quella che arde nel mio cuore [1].
san giovanni della croce – Canciones del Alma – London 1922, p. 29
Estratti dall’opera: Meditation on the Tarot: A Journey Into Christian Hermeticism, London 1982 – Trad. dall’inglese, adattamento e note di Daniele Duretto
Lettera I
Caro Amico Sconosciuto,
Le sopraccitate parole del Maestro mi sono servite come chiave per aprire la porta alla comprensione del primo Arcano Maggiore del Tarocco, “Il Mago” che è, a sua volta, la chiave di tutti gli altri Arcani Maggiori. Questo è il motivo per cui ho messo un’epigrafe a questa Lettera. E poi ho citato un verso da “I Canti dell’anima” di San Giovanni della Croce, che possiede la virtù di risvegliare gli strati profondi dell’anima, a cui ci si appella quando si è interessati al primo Arcano del Tarocco e, di conseguenza, a tutti gli Arcani Maggiori del Tarocco. Perché gli Arcani Maggiori del Tarocco sono autentici simboli, ovvero sono “operazioni magiche, mentali, psichiche e morali” che risvegliano nuove nozioni, idee, sentimenti e aspirazioni, vale a dire che richiedono un’attività più profonda di quella di studio e di spiegazione intellettuale. Essi dovrebbero quindi essere avvicinati in uno stato di contemplazione sempre più profonda. E sono gli strati più intimi e profondi dell’anima che divengono attivi e fruttificano quando si medita sugli Arcani del Tarocco. Quindi questa “notte” di cui parla San Giovanni della Croce è necessaria, è dove ci si ritira “in segreto” e in cui ci si immerge quando si medita sugli Arcani del Tarocco. È un lavoro da compiersi in solitudine, ed a maggior ragione è indicato per gli eremiti.
Gli Arcani Maggiori del Tarocco non sono né segreti né allegorie, perché le allegorie sono, in effetti, solo rappresentazioni figurative di nozioni astratte, e i segreti sono solo fatti, procedure, pratiche, o qualunque dottrina che si tiene per sé per motivi personali, poiché si è in grado di comprenderla e metterla in pratica per coloro a cui non la si vuole rivelare. Gli Arcani Maggiori del Tarocco sono autentici simboli. Essi celano e rivelano al tempo stesso il loro significato in base alla profondità della meditazione. Quelli che rivelano non sono segreti, cioè cose nascoste al volere umano, bensì arcani, che sono qualcosa di completamente diverso. Un arcano è ciò che è necessario “conoscere” al fine di essere produttivi in un dato dominio della vita spirituale. È ciò che deve essere attivamente presente nella nostra coscienza – o anche nel nostro subconscio – al fine di darci la capacità di fare scoperte, di generare nuove idee, di concepire nuovi soggetti artistici. In una parola, ci rende fertili nei nostri scopi creativi, in un qualunque dominio della vita spirituale. Un arcano è un “fermento” o un “enzima” la cui presenza stimola la vita psichica e spirituale di un uomo. E sono i simboli ad essere portatori di questi “fermenti” o “enzimi” e a comunicarsi all’uomo – se la mentalità o la moralità del ricevente è pronta, poiché se egli è “povero di spirito” e non vi riesce, soffre della malattia spirituale più grave: l’autocompiacimento.
Proprio come l’arcano è superiore al segreto, così il mistero è superiore all’arcano. Il mistero è più di un “fermento” stimolante. È un evento spirituale comparabile alla nascita e alla morte fisica. È un cambio dell’intera motivazione spirituale e psichica, o una completa modificazione del piano di coscienza. I sette sacramenti della Chiesa sono i colori prismatici della luce bianca dell’unico e solo Mistero o Sacramento, conosciuto come Seconda Nascita, che il Maestro indicò a Nicodemo [2] nel confronto iniziatorio notturno che Egli ebbe con lui. È questo che l’Ermetismo Cristiano conosce come la Grande Iniziazione.
Va da sé che nessuno inizia nessun altro, se intendiamo come ”iniziazione” il Mistero della Seconda Nascita o il Grande Sacramento. Questa Iniziazione è operativa dall’alto ed ha il valore e la durata dell’eternità. L’iniziatore è sopra, e qui sotto si incontrano solo i compagni di viaggio; ed essi si riconoscono l’un l’altro perché si “amano vicendevolmente” (cfr. Giov. 13:34-35 [3]).
Mai più vi sono più “maestri” perché vi è un solo ed unico Maestro, che è l’Iniziatore di cui sopra. Di sicuro vi sono sempre maestri che insegnano le loro dottrine e anche iniziati che comunicano ad altri alcuni segreti in loro possesso, e che diventano a loro volta “iniziati” – ma tutto questo non ha nulla a che fare col Mistero della Grande Iniziazione.
Per tale ragione l’Ermetismo Cristiano, per quanto interessa l’essere umano, non inizia nessuno. Tra gli Ermetisti Cristiani nessuno si investe del titolo e della funzione di “iniziatore” o “maestro”. Perché tutti sono compagni di studio e ognuno è maestro degli altri in qualche modo – proprio come ciascuno è scolaro di ogni altro. Non possiamo far di meglio che seguire l’esempio di Sant’Antonio il Grande [4], che si assoggettava in totale sincerità agli uomini devoti che visitava, sforzandosi di imparare a suo beneficio come se ciascuno gli fosse superiore in zelo e pratica ascetica. Osservava la gentilezza dell’uno e l’entusiasmo nella preghiera dell’altro; studiava il carattere calmo dell’uno e la bontà di cuore dell’altro; fissava la sua attenzione sulle veglie dell’uno e sugli studi dell’altro; ammirava l’uno per la paziente sopportazione, l’altro per il digiuno e il dormire sulla terra; osservava da vicino la docilità di un uomo e lo spirito di sopportazione mostrato da un altro; e parimenti nell’uno e nell’altro constatava in particolare la devozione a Cristo e l’amore che essi avevano l’uno per l’altro. Avendone quindi tratto a sazietà, ritornava al suo ritiro ascetico. Poi assimilava ciò che aveva ottenuto da ciascuno e dedicava tutte le sue energie a realizzare in se stesso le virtù di tutti. (St. Athanasius [5], The Life of Saint Anthony, Westminster 1950, p. 21).
È la medesima condotta che deve essere applicata attraverso l’Ermetismo Cristiano per ciò che concerne la conoscenza e la scienza – naturale, storica, filologica, filosofica, teologica, simbolica e tradizionale. Equivale ad apprendere l’arte dell’apprendimento.
Ora, è l’Arcano che ci stimola e allo stesso tempo ci guida nell’arte dell’apprendimento. In questo senso, gli Arcani Maggiori del Tarocco sono un’inestimabile, completa e totale scuola di meditazione, studio e sforzo spirituale – una scuola maestra nell’arte dell’apprendimento.
Caro Amico Sconosciuto, l’Ermetismo cristiano non ha pertanto la pretesa di rivaleggiare con la religione o con la scienza ufficiale. Colui che qui è in cerca della “vera religione”, della “vera filosofia” o della “vera scienza” guarda nella direzione sbagliata. Gli Ermetisti Cristiani non sono maestri, ma servi. Non hanno la pretesa (cosa, in ogni caso, alquanto puerile) di elevarsi sopra la santa fede dei fedeli, o sopra i frutti degli sforzi ammirevoli degli scienziati, o sopra le creazioni del genio artistico. Gli Ermetisti non sono a difesa del segreto delle future scoperte scientifiche. Non conoscono, per esempio, proprio come chiunque al momento attuale lo ignora, un rimedio efficace contro il cancro. In più sarebbero dei mostri se proteggessero il segreto del rimedio contro questo assillo dell’umanità senza comunicarlo. No, non lo conoscono, e sarebbero i primi a riconoscere la superiorità del futuro benefattore della razza umana, l’erudito che scoprirà il rimedio.
Analogamente essi riconoscono senza riserve la superiorità di Francesco di Assisi che era uomo di cosiddetta fede “essoterica”. Sanno anche che ogni sincero credente è un Francesco di Assisi in potenza. Uomini e donne di fede, di scienza e di arte sono i loro superiori in molti aspetti essenziali. Gli Ermetisti lo sanno bene e non si compiacciono di essere migliori, di credere meglio, di conoscere meglio o di essere più competenti. Non proteggono segretamente una religione, a loro confacente, per sostituire le religioni esistenti, o una scienza in sostituzione di quelle esistenti, o un’arte che rimpiazzi le belle arti di ieri e di oggi. Ciò che possiedono non costituisce alcun vantaggio tangibile o un’oggettiva superiorità in merito a religione, scienza e arte; ciò che possiedono è esclusivamente l’anima condivisa di religione, scienza e arte. In cosa consiste questa missione di preservare l’anima condivisa di religione, scienza e arte? Risponderò con un esempio tangibile nel modo seguente:
Sai senza dubbio, caro Amico Sconosciuto, che molti – e parecchi di loro sono scrittori – in Francia, Germania, Inghilterra e ovunque, proclamano la dottrina delle cosiddette “due chiese”: la chiesa di Pietro e la chiesa di Giovanni, o delle “due epoche” – l’epoca di Pietro e l’epoca di Giovanni. Sai anche che la dottrina insegna la fine – più o meno alle porte – della chiesa di Pietro, soprattutto del papato che ne è il simbolo visibile, e che lo spirito di Giovanni, il discepolo amato dal Maestro, colui che si appoggiò al suo petto per udire il battito del suo cuore, lo sostituirà. In questo modo si insegna che la chiesa “essoterica” di Pietro lascerà il passo alla chiesa “esoterica” di Giovanni, che sarà quella della perfetta libertà.
Ora Giovanni, che si propose volontariamente a Pietro come conduttore o principe degli apostoli, non ne divenne il successore dopo la morte, anche se sopravvisse a Pietro per molti anni. L’amato discepolo che ascoltava il battito del cuore del Maestro era, è e sempre sarà il deputato e guardiano di questo cuore – e come tale non era, non è e mai sarà il leader indiscusso [6] a capo della Chiesa. Perché proprio come il cuore non è chiamato a sostituire la testa, così Giovanni non è destinato a succedere a Pietro. Certamente il cuore protegge la vita del corpo e dell’anima, ma è la testa che prende decisioni, dirige e sceglie i mezzi per il funzionamento di tutto l’organismo – testa, cuore e arti [7]. La missione di Giovanni è di mantenere viva la vita e l’anima della Chiesa fino alla seconda venuta del Signore [8]. È questo il motivo per cui Giovanni non ha mai né mai reclamerà l’ufficio di dirigere il corpo della Chiesa. Egli vivifica questo corpo, ma non ne dirige le azioni.
Ora l’Ermetismo, la tradizione ermetica vivente, protegge l’anima comune di tutte le vere culture. Devo aggiungere: Gli Ermetisti ascoltano – e di tanto in tanto odono – il battito del cuore della vita spirituale dell’umanità. Non possono fare altro che vivere come guardiani della vita e dell’anima condivisa di religione, scienza e arte. Non hanno privilegi in alcun dominio; santi, scienziati e artisti di genio gli sono superiori. Essi vivono per il mistero del cuore comune che batte in tutte le religioni, in tutte le filosofie, in tutte le arti e scienze – passate, presenti e future. E ispirati dall’esempio di Giovanni, l’amato discepolo, non aspirano e mai aspireranno a un ruolo direttivo nella religione, nella scienza, nell’arte, nella vita politica e sociale; piuttosto essi sono costantemente attenti a non perdere occasione per servire la religione, la filosofia, la scienza, le arti, la vita politica e sociale dell’umanità, e a infondervi il respiro vitale della loro anima condivisa – a guisa della somministrazione del sacramento della Santa Comunione. L’Ermetismo è – ed è solo – uno stimolante, un “fermento” o un “enzima” nell’organismo della vita spirituale dell’umanità. In questo senso è esso stesso un arcano – vale a dire un antefatto del Mistero della Seconda Nascita o Grande Iniziazione.
Questo è lo spirito dell’Ermetismo. Ed è in questo spirito che ritorniamo ora al primo Arcano Maggiore del Tarocco. In cosa consiste questa Carta?

Un giovane uomo, che indossa un cappello a larghe falde in forma di lemnisco, è in piedi dietro a un piccolo tavolo su cui sono disposti: un vaso dipinto di giallo; tre piccoli dischi gialli; altri quattro dischi rossi, in due pile, ciascuno diviso a metà da una linea; un bicchiere rosso con due dadi; un coltello estratto dalla sua guaina; e infine una piccola borsa gialla per contenere i diversi oggetti [9]. Il giovane – che è il Mago – ha una bacchetta nella mano destra (dal punto di vista dell’osservatore) [10] e una palla o un altro oggetto nella mano sinistra. Tiene questi due oggetti con estrema facilità, senza ghermirli o mostrare segni di tensione, impaccio, premura o sforzo. Quello che fa con le mani lo fa in perfetta spontaneità – è un gioco e non un lavoro. Egli stesso non segue il movimento delle sue mani; il suo sguardo è rivolto altrove.
Questa è la Carta. La serie di simboli, vale a dire quei rivelatori di Arcani che sono il gioco del Tarocco, è aperta da un’immagine che rappresenta un prestigiatore – un mago (o giocoliere) che gioca – è davvero sorprendente! Come si può spiegare?
Il primo Arcano – il principio che soggiace a tutti i rimanenti ventuno Arcani del Tarocco – rappresenta il rapporto tra lo sforzo personale e la realtà spirituale. Esso occupa il primo posto nella serie perché se non lo si comprende (cioè non lo si afferra nella pratica cognitiva ed effettiva) non si saprebbe cosa fare con tutti gli altri Arcani. È l’”Arcano degli Arcani”, nel senso che rivela quello che è necessario conoscere e volere al fine di intraprendere la scuola di esercizi spirituali la cui totalità è inclusa nel gioco del Tarocco, per essere in grado di ricavarne qualche beneficio. Di fatto, il primo e fondamentale principio dell’esoterismo (ovvero la via per sperimentare la realtà dello spirito) può essere reso dalla formula:
All’inizio apprendi la meditazione senza sforzo; trasforma il lavoro in gioco; rendi lieve ogni giogo che hai accettato e leggero ogni peso che porti!
Questo consiglio, o comando, o anche avviso, comunque tu decida di considerarlo, è estremamente serio; è attestato dalla sua fonte originale, vale a dire le parole del Maestro: “Poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:30).
Esaminiamo in successione le tre parti della formula, al fine di penetrare l’Arcano del “rilassamento attivo” o “sforzo senza sforzo”. Innanzitutto – all’inizio apprendi la meditazione senza sforzo – cosa significa in senso pratico e teorico?
La concentrazione, come facoltà di fissare al massimo l’attenzione nella minima quantità di spazio (Goethe disse che chi vuole portare a termine qualcosa di valido, “der sammle still und überschläft, im kleinsten Punkt die größte Kraft”, cioè “in modo calmo e incessante egli dirige una grande forza sopra un minuscolo punto”), è la chiave pratica per assicurare il successo in ogni dominio. La pedagogia e la psicoterapia moderne, le scuole di preghiera e di esercizi spirituali – francescane, carmelitane, domenicane e gesuitiche – le scuole occulte di ogni tipo e, infine, l’antico yoga induista, tutti gli approcci sono concordi in merito a ciò. Patañjali, nel suo classico lavoro sullo yoga, formula nella prima frase l’essenza pratica e teorica dello yoga – il “primo arcano” o chiave dello yoga – come segue:
Yoga citta vṛtti nirodha (lo yoga è la soppressione delle oscillazioni della sostanza mentale).
yoga sutra, 1.2
O, in altri termini, l’arte della concentrazione. Perché le “oscillazioni” (vṛtti) della “sostanza mentale (citta) subentrano automaticamente. Questo automatismo nei movimenti del pensiero e dell’immaginazione è l’opposto della concentrazione. Ora, la concentrazione è possibile solo in una condizione di calma e silenzio, a spesa dell’automatismo del pensiero e dell’immaginazione.
L’”essere silenziosi” precede quindi il “conoscere” o il “volere” e l’”osare”. Questo è il motivo per cui la scuola pitagorica prescriveva cinque anni di silenzio ai principianti o “uditori”. Si osava parlare solo quando si “sapeva” o “si era in grado di”, dopo aver padroneggiato l’arte dell’essere silenti – vale a dire l’arte della concentrazione. La prerogativa di “parlare” era di coloro che smettevano di parlare automaticamente, guidati dal gioco dell’intelletto e dell’immaginazione, e che erano capaci di tacere essendo debitori alla pratica del silenzio interiore ed esteriore, e che sapevano quello che dicevano – di nuovo grazie alla pratica citata. Il silentium praticato dai monaci trappisti e prescritto durante il periodo di “ritiro”, in genere a tutti quelli che ne prendevano parte, è solo l’applicazione della stessa vera legge: “Lo yoga è la soppressione delle oscillazioni della sostanza mentale” o “la concentrazione è il silenzio imposto agli automatismi dell’intelletto e dell’immaginazione”.
Cionondimeno vanno distinti due tipi di concentrazione, essenzialmente differenti. Una è la concentrazione disinteressata e l’altra è la concentrazione interessata. La prima è motivata dalla libera volontà di asservire le passioni, le ossessioni e gli attaccamenti, mentre l’altra è il risultato di un dominio su passioni, ossessioni o attaccamenti. Un monaco assorto in preghiera e un toro infuriato sono, l’uno e l’altro, concentrati. Ma il primo è nella pace contemplativa mentre l’altro è trascinato dalla furia. Le passioni forti si manifestano dunque con un grado elevato di concentrazione. Quindi i fanatici, gli avari, gli arroganti conseguono occasionalmente una notevole concentrazione. Ma, a dire il vero, per quanto riguarda tali persone non è questione di concentrazione ma piuttosto di ossessione.
La concentrazione è un libero atto in vista della pace. Presuppone una volontà distaccata e disinteressata. Perché è il requisito della volontà ad essere il fattore determinante e decisivo nella concentrazione. Questo è il motivo per cui lo yoga, per esempio, richiede le pratiche di yama e niyama (yama – le cinque regole di condotta morale; niyama – le cinque regole di mortificazione) [11] prima della preparazione del corpo (attraverso la respirazione e la postura) per la concentrazione e la pratica dei suoi tre gradi (dhāraṇā, dhyāna, samādhi – concentrazione, meditazione e contemplazione) [12].
Sia San Giovanni della Croce che Santa Teresa d’Ávila [13] non si stancano di ripetere che la concentrazione necessaria per la preghiera spirituale è il frutto della purificazione morale della volontà. È quindi inutile sforzarsi nella concentrazione se la volontà è infervorata in qualcos’altro. Le “oscillazioni della sostanza mentale” non saranno mai ridotte al silenzio se la volontà non le infonde con il suo silenzio. È la volontà silenziata che attua il silenzio di pensiero e immaginazione nella concentrazione. Questo è il motivo per cui i grandi asceti sono anche maestri di concentrazione. Tutto ciò è ovvio ed ha una logica. Comunque, quello che ci impegna qui non è tanto la concentrazione in generale quanto, in modo speciale e particolare, la concentrazione senza sforzo. Che cos’è?
Osserviamo un funambolo. È chiaramente del tutto concentrato, perché se non lo fosse cadrebbe a terra. La sua vita è a rischio, e solo una concentrazione perfetta può salvarlo. Ma credete ancora che il suo pensiero e la sua immaginazione siano occupati con quello che sta facendo? Pensate che rifletta e che immagini, che calcoli e che faccia piani per ogni passo che fa sulla corda?
Se lo facesse, cadrebbe immediatamente. Deve eliminare tutte le attività intellettuali e dell’immaginazione per evitare di cadere. Deve aver soppresso le “oscillazioni della sostanza mentale” al fine di esercitare le sue capacità. È l’intelligenza del suo sistema ritmico – il sistema respiratorio e circolatorio – che sostituisce quella del suo cervello durante gli esercizi acrobatici. In ultima analisi, è una cosa miracolosa – dal punto di vista dell’intelletto e dell’immaginazione – analoga a quella di San Dionigi, apostolo dei Galli e primo vescovo di Parigi, che la tradizione identifica con Dionigi l’Areopagita, discepolo di San Paolo [14]. Nello specifico, egli fu decapitato con la spada di fronte alla statua di Mercurio, confessando la sua fede nella Santa Trinità. E subito il corpo di Dionigi stette eretto, prendendo la sua testa tra le mani; e con un Angelo a far da guida e una grande luce davanti, camminò per due miglia, dal luogo chiamato Montmartre al luogo dove, per sua propria scelta e per la provvidenza divina, ora riposa. (Jacobus de Varagine, Legenda Aurea [15]).
Oltre al funambolo, anche lui ha la testa – vale a dire l’intelletto e l’immaginazione – recisa da tempo con l’esercizio del suo talento, e anche lui cammina da un punto a un altro, portando la sua testa tra le mani, sotto la guida di un’altra intelligenza diversa da quella della testa, che agisce attraverso il sistema ritmico del corpo. I talenti e le abilità del funambolo, del giocoliere e del mago, sono fondamentalmente analoghi al miracolo di San Dionigi; perché con loro e come con San Dionigi, è questione di trasporre il centro della coscienza direttiva dalla testa al petto – dal sistema cerebrale al sistema ritmico.
La concentrazione senza sforzo è la trasposizione del centro direttivo del cervello al sistema ritmico – dal dominio della mente e dell’immaginazione a quello della moralità e della volontà. Il grande cappello a forma di lemnisco che indossa il Mago, così come la sua attitudine alla perfetta disinvoltura, indica questa trasposizione. Perché il lemnisco (un otto orizzontale) non è solo il simbolo dell’infinito, ma anche del ritmo, della respirazione e della circolazione – è il simbolo del ritmo eterno o dell’eternità del ritmo. Il Mago rappresenta dunque lo stato di concentrazione senza sforzo, cioè lo stato di coscienza dove il centro che dirige la volontà è “disceso” (in realtà si è elevato) dal cervello al sistema ritmico, dove le “oscillazioni della sostanza mentale” sono ridotte al silenzio e riposano, non più d’ostacolo alla concentrazione.
La concentrazione senza sforzo – vale a dire dove non vi è nulla da sopprimere e dove la contemplazione diviene naturale come il respiro e il battito del cuore – è lo stato di coscienza (ossia pensiero, immaginazione, sentimento e volontà) di calma perfetta, accompagnato da un completo rilassamento dei nervi e dei muscoli del corpo. È il profondo silenzio dei desideri, delle preoccupazioni, dell’immaginazione, della memoria e del pensiero discorsivo. Si potrebbe dire che l’intero essere diviene come la superficie dell’acqua calma, che riflette l’immensa presenza del cielo stellato e della sua indescrivibile armonia. E le acque sono profonde, sono così profonde! E il silenzio cresce, sempre di più… che silenzio! La sua crescita ha luogo con onde che passano, una dopo l’altra, attraverso l’essere: un’onda di silenzio seguita da un’altra onda di silenzio ancora più profondo, poi ancora un’onda con un silenzio sempre più profondo … Avete mai bevuto silenzio? Se sì, sapete cos’è la concentrazione senza sforzo.
All’inizio il completo silenzio o la “concentrazione senza sforzo” dura pochi momenti, in seguito minuti, poi “quarti d’ora”. Col tempo, il silenzio o concentrazione senza sforzo diventa un elemento fondamentale sempre presente nella vita dell’anima. È come il servizio perpetuo che ha luogo nella chiesa del Sacro Cuore di Montmartre, mentre a Parigi si lavora, si commercia, ci si diverte, si dorme, si muore … È in questo modo che si fissa nell’anima un “servizio perpetuo” di silenzio, che prosegue ugualmente quando si è attivi, quando si lavora, o quando si parla. Una volta stabilita questa “zona di silenzio”, potete trarne da essa sia riposando che lavorando. Così otterrete non solo la concentrazione senza sforzo, ma anche attività senza sforzo. È proprio quanto viene espresso dalla seconda parte della formula:
trasforma il lavoro in gioco
Il cambiamento del lavoro, che è obbligo, in gioco, si attua in conseguenza della presenza di una “zona di silenzio perpetuo”, da dove si inspira con una specie di respirazione intima e segreta, la cui dolcezza e freschezza compie la consacrazione del lavoro trasformandolo in gioco. Perché la “zona di silenzio” non solo significa che l’anima è fondamentalmente a riposo ma anche, e piuttosto, che vi è un contatto con il mondo celeste o spirituale, che lavora assieme all’anima. Colui che trova il silenzio nella concentrazione senza sforzo non è mai solo. Non porta mai da solo i suoi pesi; le forze dei cieli, le forze dall’alto, d’ora in avanti sono con lui. In tal modo la verità che si afferma nella terza parte della formula:
rendi lieve ogni giogo che hai accettato e leggero ogni peso che porti,
diviene essa stessa esperienza. Perché il silenzio è il segno di un contatto reale con il mondo spirituale e questo contatto, a sua volta, genera un influsso di forze. Questo è il fondamento di tutto il misticismo, di tutta la gnosi, di tutta la magia e in generale di tutta la pratica esoterica.
Tutta la pratica esoterica è fondata sulla regola seguente: è necessario essere uno in se stessi (concentrazione senza sforzo) e uno con il mondo spirituale (avere una zona di silenzio nell’anima) affinché si instauri un’esperienza spirituale vera e rivelatrice. In altre parole, se si vuole praticare una forma di esoterismo autentico – che sia misticismo, gnosi o magia – è necessario essere il Mago, vale a dire concentrati senza sforzo, operando con facilità come se si stesse giocando, e agendo in perfetta calma. Questo, allora, è l’insegnamento pratico del primo Arcano del Tarocco. È il primo consiglio, comandamento o avviso che riguarda tutta la pratica spirituale; è l’alef dell’”alfabeto” di regole pratiche dell’esoterismo. E proprio come tutti i numeri sono solo aspetti (multipli) dell’unità, così tutte le altre regole pratiche comunicate dagli altri Arcani dei Tarocco sono solo aspetti e modalità di questa regola di base.
Questo è l’insegnamento pratico del Mago. Ma qual è il suo insegnamento teorico? Corrisponde in ogni punto all’insegnamento pratico, essendo la teoria solo l’aspetto mentale della pratica. Proprio come la pratica procede dalla concentrazione senza sforzo, portando cioè in atto l’unità, così la presente teoria consiste nell’unità basilare del mondo naturale, umano e divino. Il principio dell’unitarietà elementare del mondo gioca lo stesso ruolo fondamentale per tutta la teoria come fa la concentrazione per tutta la pratica. Come la concentrazione è la base di ogni conseguimento pratico, così lo è il principio dell’unità basilare del mondo con riferimento a tutta la conoscenza – senza il quale non è concepibile alcuna conoscenza.
Il principio dell’unità essenziale di tutto quello che esiste precede ogni atto di conoscenza, e ogni atto di conoscenza presuppone il principio dell’unità del mondo. L’ideale – o fine ultimo – di tutta la filosofia e di tutta la scienza è la VERITÀ. Ma “verità” non ha altro significato di quello di riduzione della pluralità dei fenomeni a un’unità essenziale – di fatti a leggi, di leggi a principi, di principi a essenza o essere. La ricerca della verità – mistica, gnostica, filosofica e scientifica – postula la sua esistenza, cioè l’unità fondamentale della molteplicità dei fenomeni mondani. Senza l’unità nulla sarebbe conoscibile. Come si potrebbe procedere dal conosciuto allo sconosciuto – e questo è in effetti il metodo per progredire nella conoscenza – se lo sconosciuto non avesse nulla a che fare con il conosciuto? E se lo sconosciuto non avesse relazioni con il conosciuto e gli fosse completamente e fondamentalmente ignoto? Quando diciamo che il mondo è conoscibile, cioè che la conoscenza esiste come tale, affermiamo attraverso questo stesso fatto il principio dell’unità essenziale del mondo o della sua conoscibilità. Noi dichiariamo che il mondo non è un mosaico, dove una pluralità di mondi che sono essenzialmente estranei l’uno all’altro sono adattati insieme, ma che esso è un organismo – in cui tutte le parti sono governate da uno stesso principio. La relazione tra ogni cosa e tra tutti gli esseri è la conditio sine qua non della loro conoscibilità.
L’aperto riconoscimento della relazione di tutte le cose e gli esseri ha dato origine a un corrispondente metodo di conoscenza. È il metodo generalmente conosciuto con il nome di METODO DELL’ANALOGIA; il suo ruolo e la sua importanza nella cosiddetta “scienza occulta” sono stati evidenziati in modo ammirevole da Papus nel suo Traité élémentaire de science occulte (Parigi, 1888). L’analogia non è un principio o un postulato – lo è l’unità essenziale del mondo – ma è il metodo primo e principale (l’alef dell’alfabeto dei metodi) il cui uso facilita l’avanzamento della conoscenza. È la prima conclusione tratta dal principio dell’unità universale. Poiché all’origine della diversità del fenomeni si trova la loro unità, di modo che essi sono allo stesso tempo diversi e uno, ne consegue che essi non sono né identici né eterogenei bensì analoghi, nella misura in cui manifestano la loro affinità essenziale.
La formula tradizionale che espone il metodo dell’analogia è ben conosciuta. È il secondo verso della Tavola Smeraldina (Tabula Smaragdina) di Ermete Trismegisto:
Quod superius est sicut quod inferius, ed quod inferius est sicut quod est superius, ad perpetranda miracula rei unius. Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, per fare il miracolo della cosa unica [16].
Tabula Smaragdina – Proceedings of the Royal Society of Medicine XXI – london 1928, p. 42.
Questa è la classica formula dell’analogia per tutto quello che esiste nello spazio, in alto e in basso; la formula dell’analogia applicata al tempo sarebbe: Quod fuit est sicut quod erit, et quod erit est sicut quod fuit, ad perpetranda miracula aeternitatis. Ciò che fu è come ciò che sarà, e ciò che sarà e come ciò che fu, per fare il miracolo dell’eternità.
[1] San Giovanni della Croce, nato Juan de Yepes y Alvarez (1542-1591), fu un prete cattolico spagnolo e frate carmelitano convertitosi dal giudaismo. Fu figura di spicco nella Controriforma spagnola ed è uno dei 36 Dottori della Chiesa.
[2] Nicodemo era un fariseo membro del Sinedrio che visitò Gesù di notte per discutere dei Suoi insegnamenti. Il passo è citato solo in Giov. 3: 1-21, di cui diamo l’estratto iniziale: “Ora vi era tra i Farisei un uomo, chiamato Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Egli venne di notte a Gesù, e gli disse: Maestro, noi sappiamo che sei un dottore; perché nessuno può fare i miracoli che tu fai, se Dio non è con lui. Gesù gli rispose dicendo: In verità, in verità io ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio.”
[3] “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni con gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri.”
[4] Sant’Antonio il Grande (251-356) fu uno dei primi monaci cristiani egiziani. Visse, si dice, 105 anni.
[5] Atanasio di Alessandria (296-373) fu il ventesimo vescovo di Alessandria. Teologo cristiano e Padre della Chiesa, fu uno strenuo difensore del dogma della Trinità (Dio Uno e Trino) contro la dottrina del teologo berbero Ario, che sosteneva la tesi del Dio unico e indivisibile e del Figlio ‘generato’, quindi in posizione subordinata rispetto al Padre.
[6] Si è scelto di tradurre con ‘indiscusso’ il termine ox (bue) dell’originale. Tale parola è utilizzata dall’autore perché nel primo alfabeto ebraico la lettera Alef era raffigurata con il pittogramma di una testa di bue. Il pittogramma rappresentava anche un capo o un altro leader, perché quando due buoi erano aggiogati per tirare un carro, il bue più anziano e con più esperienza diventava il conduttore.
[7] Si potrebbe obiettare che il cuore fisico è l’immagine del cuore spirituale, punto centrale e centralizzante che assomma a sé tutti i piani di rappresentazione, e che fa dell’io individuale il riflesso del Sé superiore; mentre la testa – il cervello – è l’organo della conoscenza riflessa, lunare, il cui compito consiste, una volta rettificato, nel rendere intelligibile a livello della natura naturata il linguaggio divino, di per sé inarticolato. In questo caso è come se avessimo il cuore nel cervello, cioè una perfetta integrazione tra il sé e il suo agire sul piano destinico.
[8] Il Secondo Avvento o Parusia è variamente interpretato dalle diverse confessioni. Per la Chiesa Cattolica Gesù Cristo ritornerà per giudicare i buoni e i malvagi, e sarà preceduto dalla venuta dell’Anticristo. Nell’esoterismo cristiano rosacruciano, come anche secondo il pensiero antroposofico, non si tratterà di un ritorno sul piano fisico bensì sul piano eterico, quando l’umanità sarà sufficientemente progredita dal punto di vista spirituale.
[9] La descrizione della figura, che rimanda al classico Tarocco di Marsiglia, differisce leggermente a seconda dei mazzi; nelle maggior parte dei casi i bicchieri (ma potrebbero essere bussolotti) sono due, e la posizione dei dischetti o gettoni può variare.
[10] È un’osservazione curiosa. Nel Tarocco Rider-Waite, il Mago punta il braccio destro verso il cielo e il sinistro verso terra, dove il braccio destro – che impugna uno scettro – è il simbolo dell’autorità. Il Tarocco di Marsiglia, utilizzato da Papus e da Tomberg, vede la figura del Mago adottare la postura diametralmente opposta: il braccio destro abbassato rappresenta per Papus la Necessità, il Male, mentre il braccio opposto è la Libertà o il Bene. Il significato potrebbe essere questo: il Mago è l’Uomo abile, colui che ha raggiunto e padroneggiato la piena individuazione, l’integrazione tra umano e divino; conseguentemente cessa la sua dipendenza da un’autorità divina concepita come esterna a sé ed egli la interiorizza nel suo agire sul piano naturale: è il divino nell’umano che vince il male derivante dall’egoismo; il braccio sinistro alzato rappresenta al contrario l’umanizzazione del divino, la discesa del Logos nella carne. Il Mago è il perfetto Microcosmo, e infatti Papus non omette di citare che l’ultima carta (il Mondo) e la prima del Tarocco sono il Macrocosmo e il Microcosmo, il Tutto in Uno. Se volessimo esprimere un giudizio, diremmo che nel mazzo Rider-Waite abbiamo un aspirante Mago, mentre il Mago rappresentato dal Tarocco di Marsiglia è colui che ha raggiunto e superato ogni differenziazione, è il Mago realizzato. Non sappiamo se Tomberg abbia fatto questa precisazione per spirito di precisione (anche se pare un’indicazione fuorviante) o abbia voluto rimarcare proprio questa presenza del divino nell’umano. Del resto anche l’Albero dei Sephiroth subisce un cambio di orientamento, a seconda che lo si veda come Macrocosmo (di fronte a sé) o come Microcosmo (nel qual caso la colonna di sinistra diviene quella di destra e viceversa)
[11] Nella filosofia dello Yoga i cinque passi della disciplina morale (yama) sono: 1. Non violenza; 2. Non mentire; 3. Non rubare; 4. Non essere voluttuosi; 5. Non essere avidi. I cinque passi dell’autodisciplina (niyama) sono: 1. Purezza; 2. Appagamento (accettazione delle circostanze proprie e altrui così come si presentano, gioia); 3. Autocontrollo; 4. Applicazione nello studio; 5. Devozione.
[12] Nella filosofia dello Yoga i tre gradi (dhāraṇā, dhyāna, samādhi) sono indicati rispettivamente come: 1. Ritenzione (della mente attraverso mezzi yogici, essere consapevoli di null’altro che l’oggetto della concentrazione); 2. Meditazione (la persistenza senza sforzo nella consapevolezza della propria vera natura); 3. Completamento (intenso auto-assorbimento, lo stadio in cui il meditante si unisce all’oggetto della concentrazione e trascende totalmente il sé).
[13] Santa Teresa d’Ávila (1515-1582) fu una nobildonna spagnola convertitasi al cattolicesimo come monaca carmelitana. Mistica, riformatrice religiosa, teologa, dedita alla vita contemplativa ed estatica, fu spesso osteggiata dalla chiesa del tempo per le sue posizioni critiche contro il lassismo clericale e l’Inquisizione. Tra i suoi scritti, che hanno ispirato e ispirano a tutt’oggi teologi, filosofi, artisti, mistici e psicologi, citiamo la sua autobiografia, La Via di Teresa di Gesù, Il Castello Interiore e La Via della Perfezione. A quarant’anni dalla sua morte, nel 1622, fu canonizzata da papa Gregorio XV; nel 1970 papa Paolo VI la proclamò Dottore della Chiesa.
[14] Dionigi l’Areopagita fu giudice alla corte dell’Areopago ad Atene nel primo secolo della nostra era. Secondo gli Atti degli Apostoli (17:34) fu convertito al Cristianesimo durante il Sermone dell’Areopago dell’apostolo Paolo, e in seguito divenne il primo vescovo di Atene. Nel nono secolo fu erroneamente identificato con San Dionigi, martire di Gallia e primo vescovo di Parigi. Dionigi l’Areopagita non è neppure da confondersi con lo Pseudo Dionigi, un teologo cristiano non identificato del quinto o sesto secolo che nei suoi scritti, utilizzando un linguaggio neoplatonico, si firma come “Dionyisios” e si ritrae come Dionigi l’Areopagita.
[15] Jacopo da Varagine (1230-1298) fu cronista e arcivescovo di Genova. Il suo Legenda Aurea, collezione delle vite leggendarie dei più grandi santi, all’invenzione della stampa nel 1450 ebbe più copie della Bibbia.
[16] Nel De Alchimia, raccolta di scritti alchemici pubblicata a Norimberga nel 1541, il testo è: “Quod est inferius, est sicut quod est superius. Et quod est superius, est sicut quod est inferius, ad perpetranda miracula rei unius.”
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