La Papessa è il riflesso del puro atto espresso dal Mago, la spontaneità che diviene consapevolezza e intelligenza

Estratti dall’opera: Meditation on the Tarot: A Journey Into Christian Hermeticism, London 1982 – Trad. dall’inglese, adattamento e note di Daniele Duretto

Lettera II


Caro Amico Sconosciuto,

come esposto nella Lettera precedente, il Mago è l’Arcano del calore intellettuale e dell’ospitalità, l’Arcano della vera spontaneità. La concentrazione senza sforzo e la percezione delle corrispondenze in accordo alla legge dell’analogia sono le allusioni principali di questo Arcano della fecondità spirituale. È l’Arcano del puro atto dell’intelligere. Ma un atto puro è come il fuoco o il vento: appare e scompare, e quando esaurito cede a un altro atto.

Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né donde viene né donde va; così è di chiunque è nato dallo spirito. (Giov. 3:8).

Il puro atto non può essere afferrato; è solo il suo riflesso che lo rende percepibile, comparabile e comprensibile o, in altre parole, è in virtù del riflesso che ne diveniamo consapevoli. Il riflesso dell’atto puro produce una rappresentazione interiore che viene trattenuta dalla memoria; la memoria diviene una sorgente di comunicazione per mezzo della parola; e la parola comunicata viene fissata nello scritto, producendo il “libro”.

Il secondo Arcano, la Sacerdotessa, è quello del riflesso del puro atto del primo Arcano sino a che esso diviene “libro”. Ci mostra come il Fuoco e il Vento diventano Scienza e Libro. O, in altre parole, come “La Saggezza edifica la sua dimora”.

Come abbiamo già fatto presente, si diventa consapevoli del puro atto dell’intelligenza solo per mezzo del suo riflesso. Abbiamo bisogno di uno specchio interiore per essere consapevoli dell’atto puro o per sapere “donde viene e donde va”. Il soffio dello Spirito – o il puro atto intellettuale – è certamente un evento, ma non è sufficiente, da solo, perché noi ne diveniamo consapevoli. La Consapevolezza (coscienza) è il risultato di due principi – l’attivo, il principio di attivazione e il passivo, il principio di riflessione. Per sapere da dove viene il soffio dello Spirito e dove va, necessita l’Acqua per il riflesso. Questo è il motivo per cui la conversazione del Maestro con Nicodemo, a cui ci siamo già riferiti, enuncia il requisito necessario per l’esperienza cosciente dello Spirito Divino, o Regno di Dio:

In verità, in verità io ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito non può entrare nel regno di Dio. (Giov. 3:5)

“In verità, in verità” – il Maestro ricorre due volte alla “verità” con questa formula mantrica (cioè magica) della realtà della con-sapevolezza. Con queste parole egli afferma che la piena consapevolezza della verità è il risultato  di una verità “inspirata” e di una verità riflessa. La coscienza reintegrata, che è il Regno di Dio, presuppone due rinnovamenti, equiparabili come significato alla nascita, dei due elementi costituenti la coscienza – lo Spirito attivo e l’Acqua di riflessione. Lo Spirito deve diventare il Soffio divino in luogo dell’attività personale e arbitraria, e l’Acqua deve diventare uno specchio perfetto del Soffio divino invece di essere agitata dai disturbi dell’immaginazione, delle passioni e dei desideri personali. La coscienza reintegrata deve nascere di Acqua e di Spirito, dopo che l’Acqua è stata ancora una volta resa Verginale e lo Spirito è ancora una volta divenuto Soffio divino o Spirito Santo. La coscienza reintegrata nasce quindi nell’anima umana in modo analogo alla nascita o all’incarnazione storica della PAROLA:

Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Vergine. (per il potere dello Spirito Santo la Parola si incarna dalla Vergine Maria)

La ri-nascita dall’Acqua e dallo Spirito che il Maestro indica a Nicodemo, è il ri-stabilirsi dello stato di coscienza precedente la Caduta, dove lo Spirito era il Soffio divino e dove il Soffio era riflesso dalla natura virginale. Questo è lo yoga cristiano. Il suo scopo non è la “liberazione totale” (mukti) [1], cioè lo stato di coscienza senza soffio e senza riflesso, ma piuttosto il “battesimo dall’Acqua e dallo Spirito”, che è la risposta perfetta e completa all’azione divina. Questi due tipi di battesimo conducono alla reintegrazione dei due elementi costituenti come tali la consapevolezza – l’elemento attivo e quello passivo. Non vi è consapevolezza senza questi due elementi, e la soppressione di questa dualità per mezzo di un metodo di pratica come quello ispirato dall’ideale dell’unità (Advaita [2] – non dualità), deve necessariamente condurre all’estinzione non dell’essere ma piuttosto della coscienza. Quindi ciò non sarebbe una nuova nascita della coscienza, ma piuttosto il suo ritorno a uno stato cosmico embrionale prenatale [3].

D’altra parte, questo è ciò che dice Plotino [4] in merito alla dualità sottostante tutte le forme ed ogni livello di coscienza, vale a dire il principio attivo e il suo specchio:

… quando vi è uno specchio appare un’immagine ma, anche se lo specchio è assente oppure non è sistemato in modo appropriato,  l’oggetto che avrebbe prodotto l’immagine esiste ancora. Così è nel caso dell’Anima; quando vi è pace in ciò che in noi è in grado di riflettere le immagini dei Principi Razionale e Intellettivo queste immagini appaiono. Allora, a fianco della conoscenza originaria dell’attività dei Principi Razionale e Intellettivo, abbiamo anche per così dire una percezione sensoriale del loro operato. Quando, al contrario, lo specchio interiore è compromesso da qualche disturbo dell’armonia corporea, i Principi della Ragione e dell’Intelletto agiscono senza immagine: l’intelletto non è più custodito dall’immaginazione. (Plotino, Enneadi, IV 10)

Questo è il concetto platonico di coscienza, il cui studio accurato può servire quale introduzione alla conversazione notturna del Maestro con Nicodemo in merito alla reintegrazione cosciente o finalità dello yoga cristiano.

Lo yoga cristiano non aspira direttamente all’unità, ma piuttosto all’unità dei due. Ciò è molto importante per capire la posizione da tenere verso il problema immensamente serio dell’unità e della dualità. Perché questo problema può davvero aprirci la porta ai misteri divini ma può anche chiudercela … per sempre forse, chissà? Tutto dipende da come lo si comprende. Possiamo decidere in favore del monismo e dirci che ci può essere un’unica essenza, un unico essere. O possiamo decidere – in vista di una considerevole esperienza storica e personale – a favore del dualismo e dirci che al mondo vi sono due principi: bene e male, spirito e materia e che, sebbene questo dualismo sia di base totalmente incomprensibile, dev’essere riconosciuto come fatto incontestabile. Possiamo, inoltre, decidere a favore di un terzo punto di vista, ovvero quello dell’amore come principio cosmico che presuppone la dualità e postula la sua unità non sostanziale ma essenziale.

Questi tre punti di vista sono alla base del Vedanta (Advaita) e dello spinozismo (monismo) [5], del manicheismo [6] e di alcune scuole gnostiche (dualismo) e della corrente giudaico-cristiana (amore).

Allo scopo di essere più chiari e precisi sulla questione, oltre a conseguire un maggiore approfondimento – considereremo come punto di partenza quello che dice Louis Claude de Saint-Martin in merito al numero due nel suo libro Des Nombres:

Ora, allo scopo di mostrare come essi (i numeri) sono in relazione alla loro sfera di attività, iniziamo ad osservare come lavorano l’unità e il numero due. Quando contempliamo una verità importante, come l’universale potenza del Creatore, la sua maestà, il suo amore, le sue luci profonde, o altri suoi simili attributi, ci dirigiamo interamente verso questo modello supremo di tutte le cose; tutte le nostre facoltà sono sospese per riempirci di lui, e diventiamo realmente uno con lui. Ecco l’immagine attiva dell’unità; e il numero uno è, nel nostro linguaggio, l’espressione di questa unità o dell’unione indivisibile che, esistendo intimamente in tutti gli attributi di questa unità, dovrebbe ugualmente esistere tra questa e tutte le sue creature e produzioni. Ma se, dopo aver diretto tutte le nostre facoltà contemplative verso tale sorgente universale, riportiamo gli occhi su di noi, e ci riempiamo della nostra propria contemplazione, di modo che ci vediamo come l’origine di alcune delle illuminazioni o delle intime soddisfazioni che la sorgente ci ha procurato, da quell’istante stabiliamo due centri di contemplazione, due principi separati e rivali, due basi che non sono più collegate; alla fine stabiliamo due unità, con la differenza che l’una è reale e l’altra è apparenza … Ma dividere l’essere a metà significa dividerlo in due parti, passare dall’intero alla qualità della parte o della metà, ed è lì la vera origine del binario illegittimo … Questo esempio è sufficiente per mostrarci la nascita del numero due, l’origine del male … [7]

La dualità significa quindi lo stabilirsi di due centri di contemplazione, due principi separati e rivali – uno vero e uno apparente – e questa è l’origine del male, che è solo duplicità illegittima. È questa l’unica possibile interpretazione della dualità, della duplicità, del numero due? Non esiste una legittima duplice-ità? … una duplicità che non significa la diminuzione dell’unità, ma piuttosto un suo arricchimento qualitativo?

Se torniamo al concetto di Saint-Martin sui “due centri di contemplazione” che sono “due principi separati e rivali”, possiamo chiederci se essi devono essere necessariamente separati e rivali. La stessa espressione “contemplazione” scelta da Saint-Martin, non suggerisce l’idea di due centri che si contemplano simultaneamente – come farebbero due occhi se fossero messi uno sopra l’altro verticalmente – i due aspetti della realtà, il noumeno e il fenomeno? E che è in virtù dei due centri o “occhi” che noi siamo – o siamo in grado – di essere coscienti di “quello che sta sopra e di quello che sta sotto”? Potrebbe qualcuno, per esempio, enunciare la formula principale della Tavola di Smeraldo se avesse solo un “occhio” o centro di contemplazione invece di due? [8]

Ora, il Sepher Yetzirah dice:

Due è il soffio che viene dallo Spirito, e in esso si formano i ventidue suoni … ma lo Spirito è il primo ed è sopra questi.

O, in altri termini, due è il Soffio divino e il suo Riflesso; è l’origine del “Libro della Rivelazione” che è il mondo oltre che le Sacre Scritture. Due è il numero della con-sapevolezza del soffio dello Spirito e delle sue lettere “formate” (incise). È il numero della reintegrazione della coscienza, spiegata dal Maestro a Nicodemo con l’Acqua virginale e il Soffio dello Spirito Santo.

Due è tutto questo, ed è ancora di più. Non solo il numero due non è necessariamente la “duplicità illegittima” descritta da Saint-Martin, ma è anche il numero dell’amore o la condizione fondamentale dell’amore che esso necessariamente presuppone e postula … perché l’amore è inconcepibile senza l’Amante e l’Amata, senza il TU e l’IO, senza l’Uno e l’Altro.

Se Dio fosse solo Uno e non avesse creato il Mondo, egli non sarebbe il Dio rivelato dal Maestro, il Dio di cui San Giovanni dice:

Dio è amore; e chi dimora nell’amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui. (I Giov. 4:16)

Se così non fosse, egli non avrebbe amato nessun altro che se stesso. Siccome questo è impossibile dal punto di vista del Dio dell’amore, egli si rivela all’umana consapevolezza come la Trinità eterna – l’Amante che ama, l’Amato che ama, e il loro Amore che li ama: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Non sperimenti anche tu, caro Amico Sconosciuto, un sentimento di disagio ogni volta che incontri una formula che definisce gli elevati attributi della Santa Trinità come “Forza, Saggezza, Amore” o “Essere, Coscienza, Beatitudine” (sat cit ānanda [9]). Personalmente ho sempre sperimentato malessere, e solo più tardi, molti anni dopo, ne ho compreso la causa. Poiché Dio è amore, ciò non ammette confronti, supera tutto – forza, saggezza, e anche l’essere. Si può, se lo si desidera, parlare di “forza dell’amore”, di “saggezza dell’amore” e di “vita dell’amore” allo scopo di fare una distinzione tra le tre Persone della Santa Trinità, ma non è possibile porre allo stesso livello l’amore da un lato e la saggezza, la forza e l’essere dall’altro. Perché Dio è amore ed è l’amore – solo l’amore – che attraverso la sua presenza dà valore alla forza, alla saggezza e all’essere stesso. Perché l’essere senza amore è privo di ogni valore. L’essere senza l’amore sarebbe il tormento più orribile – l’Inferno stesso!

L’amore supera quindi l’essere? Come si potrebbe dubitare di ciò dopo la rivelazione di questa verità a diciannove secoli dal Mistero del Calvario? “Ciò che sta sotto è come quello che sta sopra” – e non si tratta del sacrificio della Sua vita. Il suo essere terrestre, portato a termine attraverso l’amore dal Dio Incarnato, non è la dimostrazione della superiorità dell’amore sull’essere? E non è la Resurrezione la dimostrazione di un altro aspetto del primato dell’amore sull’essere, cioè che l’amore non solo è superiore all’essere ma che anche lo genera e lo ristabilisce?

Il problema sul primato dell’essere o dell’amore risale all’antichità. Platone lo sollevò quando disse:

Il Sole, presumo dirai, non solo procura alle cose visibili il potere della visibilità ma anche provvede alla loro generazione, crescita e nutrimento sebbene esse non siano autogenerate … In tal modo, quindi, stai dicendo che gli oggetti della conoscenza non solo ricevono dalla presenza del bene il loro essere conosciuti, ma l’esistenza e l’essenza loro proprie deriva da esso, per quanto il bene stesso non sia essenza, eppure, trascenda l’essenza in dignità e potere surclassante. (Platone, Repubblica, 509B, London 1930)

E sette secoli più tardi Sallustio [10], amico dell’imperatore Giuliano, disse:

Ora, se la Causa Prima fosse l’anima, ogni cosa sarebbe animata dall’anima, se fosse l’intelligenza sarebbe l’intelletto, se fosse l’essere, ogni cosa condividerebbe l’essere. Qualcuno, infatti, vedendo che tutte le cose posseggono l’essere, ha pensato che la Causa Prima fosse l’essere. Ciò sarebbe corretto se le cose che sono in essere fossero solo in essere e non buone. Se, tuttavia, le cose che esistono lo sono in ragione della loro virtù di condivisione del bene, allora quello che viene prima dev’essere più elevato dell’essere e di fatto buono. Un’indicazione molto chiara di ciò è che le anime buone per amore del bene disprezzano l’essere, mentre sono desiderose di confrontarsi con il pericolo per il bene della nazione o degli amici o per virtù. (Sallustio, Sugli Dèi e l’Universo, Cambridge 1926)

Il primato del bene (essendo il bene la nozione filosofica astratta della realtà dell’amore) in relazione all’essere è stato discusso anche da Plotino (Enneadi, VI, 7), Proclo [11] (In Platonis Theologiam, ii 4) e da Dionigi l’Areopagita (De Divinis Nominibus, IV). San Bonaventura (Collationes in Hexaemeron, X 10) cerca di riconciliare il primato platonico del bene con il primato mosaico dell’essere: Ego sum qui sum (“Io sono colui che sono”, Es. 3:14 [12]) – come asserito in precedenza da Giovanni Damasceno [13] e in seguito da Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo afferma che tra tutti i nomi divini ve n’è uno che si adatta perfettamente a Dio, ed è Qui est (“Colui che è”) proprio perché non significa nient’altro che l’essere stesso. Etienne Gilson [14], in accordo con San Tommaso, Giovanni Damasceno e Mosè, scrive sull’essere:

In questo principio giace un’inesauribile fecondità metafisica … non vi è che un Dio e questo Dio è Essere, ovvero la chiave di volta di tutta la filosofia cristiana, e non fu Platone, non fu nemmeno Aristotele, bensì Mosè a istituirla. (Etienne Gilson, The Spirit of Mediaeval Philosophy, London 1950 p. 51)

Ma qual è il vero significato dell’adozione del primato dell’essere, invece di quello del bene o, secondo San Giovanni, dell’amore?

L’idea dell’essere è neutrale dal punto di vista della vita morale. Non vi è bisogno di avere l’esperienza del bene e del bello per giungervi. L’esperienza del solo regno minerale è già sufficiente per giungere all’idea moralmente neutrale dell’essere. Perché il minerale è. Per questa ragione l’idea di essere è obiettiva, ovvero postula, in ultima analisi, la cosa che sottostà a tutto, la sostanza permanente dietro a tutti i fenomeni.

Ti invito, caro Amico Sconosciuto, a chiudere gli occhi e a riprodurre fedelmente l’immagine che accompagna quest’idea con la tua immaginazione mentale. Non trovi la vaga immagine di una sostanza senza forma o colore, molto simile all’acqua del mare?

Qualunque sia la vostra rappresentazione soggettiva dell’essere, l’idea di essere è moralmente indifferente ed è, di conseguenza, essenzialmente naturalistica. Implica qualcosa di passivo, cioè un fatto dato o inalterabile. Per contro, quando pensate all’amore in senso giovanneo o all’idea platonica del bene, vi trovate a confrontarvi un’attività essenziale, che non è in alcun modo neutrale dal punto di vista della vita morale, ma che ne è il cuore. E l’immagine che accompagna questa nozione di pura realtà sarebbe quella del fuoco o del sole (Platone comparava l’idea del bene al sole, e la sua luce alla verità), in luogo dell’immagine di un’indefinita sostanza fluida.

Talete [15] ed Eraclito [16] hanno due concezioni differenti. L’uno vede nell’acqua l’essenza delle cose  mentre l’altro la vede nel fuoco. Ma qui, in primo luogo, vale l’idea che il BENE e il suo apice – l’AMORE – giungono da una concezione del mondo come processo morale, laddove l’idea di ESSERE e il suo apice – il Dio QUI EST – nascono da una concezione del mondo come un fatto di Natura. L’idea di bene (e di amore) è essenzialmente soggettiva. È assolutamente necessario aver avuto esperienza della vita psichica e spirituale per essere in grado di concepirlo, benché – come abbiamo già indicato – l’idea di essere, essendo essenzialmente oggettiva, presupponga solo un certo grado di esperienza esteriore … del regno minerale, per esempio.

La conseguenza dello scegliere tra queste due – non direi “punti di vista”, ma piuttosto “attitudini dell’anima” – sta soprattutto nella natura intrinseca nell’esperienza di misticismo pratico che deriva conseguentemente da questa scelta. Colui che sceglie l’essere aspirerà al puro essere e colui che sceglie l’amore aspirerà all’amore. Perché uno trova solo quello che cerca. Il cercatore del vero essere giungerà all’esperienza della quiete nell’essere e, siccome non ci possono essere due veri esseri (“la duplicità illegittima” di Saint-Martin) o due sostanze separate e coeterne ma solo un essere e una sostanza, il centro del “falso essere” sarà soppresso (“falso essere” = ahamkara [17], o l’illusione dell’esistenza separata di una sostanza separata del sé). La caratteristica di questa via mistica è che si perde la capacità di piangere. Uno studente avanzato di yoga o Vedanta avrà per sempre gli occhi secchi, mentre i maestri della Cabala, secondo lo Zohar, piangono molto e spesso. Il misticismo cristiano parla anche di “dono delle lacrime” – come dono prezioso della grazia divina. Il Maestro pianse di fronte alla tomba di Lazzaro. Quindi la caratteristica esteriore di coloro che scelgono l’altra via mistica, quella del Dio dell’amore, è che essi hanno il “dono delle lacrime”. Ciò è in accordo con la vera essenza della loro esperienza mistica. La loro unione con il Divino non è l’assimilazione del loro essere nell’Essere Divino, ma piuttosto l’esperienza del respiro dell’Amore Divino, l’illuminazione attraverso l’Amore Divino, e il calore dell’Amore Divino. L’anima che lo riceve subisce una tale esperienza miracolosa da mettersi a piangere. In questa esperienza mistica il fuoco si incontra con il FUOCO, quindi la personalità umana non si estingue ma, al contrario, ogni cosa si illumina. È questa l’esperienza della “vera duplicità” o l’unione di due sostanze separate in una sola essenza. Le sostanze rimangono separate fintantoché sono private della cosa più preziosa dell’esistenza: la libera coalizione nell’amore.

Ho parlato di “due sostanze” e di “una essenza”. Qui è davvero necessario afferrare il significato di questi due termini – sostanza (substantia) ed essenza (essentia), la cui esatta distinzione è oggi quasi eclissata. Comunque, i due termini denotano ad un tempo due distinte categorie non solo di idee ma anche di esistenza e di coscienza.

Platone stabilisce la distinzione tra einai, essere (εἶναι) e ousia, essenza (οὐσία). Essere per lui significa l’esistenza come tale, laddove essenza designa l’esistenza dovuta alle Idee.

Tutto ciò che ha esistenza ha essenza attraverso la condivisione nelle Idee, in se stesse essenze. Il termine essenza non designerà quindi per noi l’esistenza astratta ma la realtà dell’Idea. (A.J.E. Fouillée, La Philosophie de Platon, Paris 1888, vol. II pp. 106-7)

Essenza (essentia, ousia) significa l’atto positivo in sé per il cui tramite l’essere è (nella Cabala si parlerebbe dell’atto di emanazione del primo Sephira, KETHER – il cui nome divino corrispondente è AHIH (Eheieh), “IO SONO” – da AINSOPH, l’Illimitato.

… poiché it esse potrebbe generare il participio presente attivo essens, da dove essentia sarebbe derivato. (Etienne Gilson, The Spirit of Mediaeval Philosophy, London 1950 p. 54)

Quindi il termine essentia appartiene propriamente solo a Dio; tutto il resto va nella categoria di substantiae. Questo è il motivo per cui il platonico Padre della Chiesa Sant’Agostino [18] dice:

unde manifestum est Deum abusive substantiam vocari, ut nomine usitatiori intelligatur essentia, quod vere ac proprie dicitur, ita ut fortasse solum Deum dici oporteat essentiam.

… da cui è chiaro che Dio è nominato erroneamente come sostanza, e che è meglio chiamarlo con il più comune termine essenza, per il fatto che è il termine appropriato, a tal punto che forse solo Dio si dovrebbe chiamare essenza. (Sant’Agostino, De Trinitate, VII 5-10)

La distinzione tra sostanza ed essenza, tra realtà e ideale, tra essere e amore (o l’idea del bene), o tra Colui che è e AIN-SOPH è anche la chiave del Vangelo secondo Giovanni:

Nessuno ha mai veduto Iddio; l’unigenito Figliolo, che è nel seno del Padre, è quel che l’ha fatto conoscere. (Giov. 1:18)

“Nessuno ha mai veduto Iddio”, ovvero nessuno ha mai contemplato Dio faccia a faccia conservando la propria personalità. Perché “vedere” significa “percepire mentre si è di fronte a ciò che si percepisce”. Prima di Gesù Cristo ci furono, senza dubbio, numerosi esempi di esperienza di Dio – essere “rapiti da Dio” (l’esperienza dei profeti), essere “immersi in Dio” (l’esperienza degli yogi e dei mistici dell’antichità), o assistere al rivelarsi della Sua opera, il mondo (l’esperienza dei saggi e dei filosofi dell’antichità), ma nessuno ha mai visto Dio. Perché né l’ispirazione dei profeti, né l’immersione in Dio dei mistici, né la contemplazione di Dio nello specchio della creazione da parte dei saggi è equivalente alla nuova esperienza della “visione” di Dio – la “visione beatifica” della teologia cristiana. Perché questa visione ha luogo nel dominio dell’essenza che trascende tutta la sostanza; non è una fusione, ma un incontro nel dominio dell’essenza, in cui la personalità umana (la consapevolezza di sé) rimane non solo intatta e senza impedimenti, ma anche diviene “ciò che è”, cioè diviene pienamente se stessa – così come il Pensiero di Dio l’ha concepita per tutta l’eternità. Le parole di San Giovanni, quando interpretate in questo modo, rendono intelligibili quelle del Maestro nel Vangelo di San Giovanni:

Tutti quelli che son venuti prima di me, sono stati ladri e briganti. (Giov. 10:8)

In queste parole si cela un mistero profondo. Come possono essere davvero comprese, accanto a numerosi altri detti del Maestro, comparate a quelle di Mosè, di Davide e degli altri profeti che vennero tutti prima di lui?

Ora, qui non è questione di furto e rapina, ma del principio alla base dell’iniziazione prima e dopo Gesù Cristo. I maestri antecedenti alla Sua Venuta insegnarono l’esperienza di Dio a spese della personalità, che doveva essere incapacitata quando “rapita” da Dio o “immersa” in Dio. In questo senso – nel senso di una diminuzione o di un incremento del “talento d’oro” affidato all’umanità, la personalità, che è “l’immagine a somiglianza di Dio” (Goethe: Das höchste Gut der Erdenkinder ist dock die Persönlichkeit, cioè “Il più grande tesoro dei bambini su questa terra è indubbiamente la personalità”) – i maestri prima di Cristo erano come “ladri e rapinatori”. Essi certamente erano testimoni di Dio ma il modo in cui insegnavano e praticavano era portatore di spersonalizzazione, il che ne faceva testimoni (“martiri”) di Dio. La grandezza del Bhagavān, il Buddha, stava nell’alto grado di spersonalizzazione da lui conseguito. I maestri dello yoga sono maestri della spersonalizzazione. Gli antichi filosofi – coloro che realmente vivevano come “Filosofi” – praticavano la spersonalizzazione. È il caso soprattutto degli Stoici.

Questo è il motivo per cui tutti coloro che hanno scelto la via della spersonalizzazione sono incapaci di piangere e hanno gli occhi secchi per sempre. Perché è la personalità che piange e che sola è capace del “dono delle lacrime”. “Beati quelli che fanno cordoglio, perché essi saranno consolati” (Mat. 5:4).

Quindi questo è quantomeno un aspetto (ve ne è un altro più profondo, ma non so se sarà possibile scriverne in una delle Lettere successive) secondo il quale possiamo dire che le parole misteriose in merito ai “ladri e rapinatori” possono diventare una sorgente di luce radiante. Quando il Vangelo parla di quelli che vennero prima di Gesù Cristo, non è solo il tempo a designare la parola “prima”, ma anche il grado di iniziazione – vi sono ladri e rapinatori riguardo alla personalità, poiché essi insegnarono la spersonalizzazione dell’essere umano. Per contro, il Maestro dice pure: “Io son venuto perché abbiano (le pecore) la vita e l’abbiano ad esuberanza” (Giov. 10:10); in altre parole egli è venuto  allo scopo di offrire più vita a chi gli è caro e che è minacciato dai pericoli, ovvero la pecora come immagine della personalità! Ciò appare inconcepibile in presenza dell’ideale della personalità secondo Nietzsche e il suo “superuomo” o con le grandi personalità storiche come Alessandro il Grande, Giulio Cesare, Napoleone … e le “grandi personalità” dei tempi moderni!

No, caro Amico Sconosciuto, il possesso attraverso  il potere o la gloria non fa né la personalità né la sua grandezza. La “pecora”, nel linguaggio d’amore del Maestro, non rappresenta né la “grande personalità” né la “piccola personalità”, ma semplicemente l’anima individuale che vive. Egli vuole che l’anima viva senza pericoli e che abbia una vita intensa tanto quanto Dio gliel’ha destinata. La “pecora” è l’entità vivente, circondata dai pericoli, che è oggetto della cura divina. Non è sufficiente? C’è in essa troppo poca luce e gloria? È troppo flebile rispetto all’immagine, ad esempio, di un mago in grado di evocare gli spiriti buoni e malvagi?

Qui è necessario porre attenzione a una cosa, a un’unica cosa: il linguaggio del Maestro è quello dell’amore e non della psicologia, della filosofia o della scienza. Il mago potente, il genio dell’arte, il profondo pensatore, e il mistico radioso, meritano certamente tutte queste qualificazioni e forse anche di più grandi, ma essi non impressionano Dio. Agli occhi di Dio sono come amabili pecore; nella sua considerazione egli desidera che esse non vadano mai smarrite e che abbiano ininterrottamente una vita [19].


[1] La parola mukti (salvezza, liberazione, emancipazione) viene intesa nelle dottrine induiste come liberazione dai legami della vita mondana e dai ripetuti cicli di morte e rinascita. Il devoto, attraverso la realizzazione dell’identità tra individuo e coscienza superna, spezza le catene dell’esistenza mondana e ottiene il parama nirvāṇa, l’estinzione suprema dell’esperienza samsarica. Ma altre scuole fanno riferimento al mukti come alla liberazione dal falso concetto di “io” e “mio” che porta alla cessazione dell’inquietudine e alla rivelazione della propria vera natura. In questo senso non esiste una differenza sostanziale con lo “yoga cristiano”.

[2] L’Advaita Vedanta è un insegnamento dell’ortodossia induista incentrato sulla dottrina della non-dualità o del senza-secondo. Secondo tale dottrina solo la coscienza suprema, Brahman, l’essere trascendente, esiste; tutti gli “io” e le varie cose sono māyā, l’illusione della separazione da questo unico principio.

[3] Vale quanto già detto per il mukti (v. nota 1). La soluzione non sta nell’estinzione della dualità, bensì nell’estinzione del concetto di dualità. Questa mancanza di differenziazione genera molti fraintendimenti, creando settarismi che non avrebbero ragione di esistere. Quello che cessa è l’illusione insita nella visione samsarica, a cui segue l’esperienza, secondo il Vedanta, dell’unità fondamentale tra l’atman e il Brahman, la coscienza individuale e la sua ipostasi divina, senza che questo implichi la perdita della consapevolezza mondana.

[4] Plotino (204/5-270) fu un filosofo greco vissuto nell’Egitto romano, uno dei più influenti dell’antichità dopo Platone e Aristotele. La sua filosofia, descritta nelle Enneadi, considera l’Uno auto-causato come il principio della vita universale, l’Intelletto come principio dell’intelligibilità al servizio dell’Uno, e infine l’Anima come principio del desiderio per gli oggetti esterni al sé (cibo, ecc.). Nella sua filosofia è fondamentale il concetto di ἕνωσις, unione o unità con il fondamento della realtà.

[5] Baruch Spinoza (1632-1677) fu un filosofo olandese di origini portoghesi. Nella sua Ethica egli riferisce la natura naturans all’attività auto-causativa della natura stessa, cioè a Dio considerato come eterna e infinita essenza. La natura naturata è il prodotto passivo di un’infinita catena causale che segue le necessità dell’espressione divina e che non può essere concepita senza Dio. Per Spinoza quindi Dio e la natura sono un’unica realtà (Deus sive Natura).

[6] Il Manicheismo, sistema religioso fondato in Persia dal profeta Mani (c. 216-276 d.C.), propugna l’esistenza di due principi contrapposti del bene e del male, della luce superna e delle tenebre materiali, Ahura Mazda e Ahriman, avvicinandosi in questo al concetto gnostico del demiurgo malvagio che crea il mondo. La corrente di pensiero tradizionale sostiene in realtà che tale dualismo è solo apparente, essoterico, perché essenzialmente le due figure fanno capo a Zrvan Akrana, dio assoluto a cui i due sono destinati infine ad unirsi.

[7] Louis Claude de Saint-Martin – Des Nombres – Paris 1861 – pp. 17-19.

[8] Sepher Yetzirah, I, 10 – London 1893, p. 16.

[9] Sat è usato per descrivere la Verità eterna, pura, assoluta; cit è la pura consapevolezza; ānanda è la pura beatitudine. Come parola sanscrita composta (satcitananda) è un epiteto e una descrizione per l’esperienza soggettiva della realtà ultima o Brahman.

[10] Saturnius Secundus Salutius fu un ufficiale di carriera romano nativo della Gallia. Vinse il rispetto dell’imperatore Giuliano grazie alle sue conoscenze di filosofia greca e di retorica. Da non confondersi con Gaius Sallustius Crispus,  storico e politico romano di origine plebea (86 c.–35 a.C.)

[11] Proclo Lycaeus detto il Successore (412-485), uno degli ultimi filosofi classici, fu per quasi cinquant’anni a capo dell’Accademia Platonica di Atene. Scrittore eccezionalmente produttivo in numerose discipline, ebbe un’influenza duratura sullo sviluppo delle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria.

[12] Iddio disse a Mosè: ‘Io sono quegli che sono’. Poi disse: ‘Dirai così ai figliuoli d’Israele: l’Io sono mi ha mandato da voi”.

[13] Giovanni Damasceno (675-749) fu un monaco e apologeta cristiano. Personaggio eclettico con molti interessi, tra cui la teologia, divenne amministratore del califfato di Damasco prima della sua ordinazione. Fu uno dei padri della Chiesa ortodossa orientale e compose inni ancora oggi utilizzati. Fu consacrato Dottore della Chiesa nell’ambito del cattolicesimo, per i suoi scritti sull’Assunzione di Maria.

[14] Etienne Gilson (1884-1978), filosofo e storico francese, versato in special modo nella filosofia medievale e nel tomismo.

[15] Talete di Mileto (620-546 a.C.), filosofo, matematico e astronomo presocratico greco, è considerato uno dei cosiddetti Sette Saggi dell’antichità. Fu il fondatore della scuola di filosofia naturale, sorta per investigare con il metodo scientifico i principi di base all’origine delle sostanze e della materia.

[16] Eraclito di Efeso (c. 535-c. 475 a.C.) fu un filosofo presocratico greco. Propose una teoria distintiva espressa in linguaggio oracolare (fu noto, infatti, come l’”Oscuro”). Le sue dottrine prevedono il cambiamento costante delle cose (flusso universale), la coincidenza o unità degli opposti e che il fuoco è la base sostanziale del mondo.

[17] Solo nel Vishnuismo il termine ahamkara ha il significato di “falso ego”. In tutte le altre scuole induiste, oltre che nel buddhismo, ahamkara traduce la nozione e l’identificazione con l’individualità, o anche l’ego cosmico, secondo i Purāna. Letteralmente significa “egoismo”, ovvero il senso dell’io e del mio. L’autore forza la tesi per sostenere il primato dell’Amore sull’Essere.

[18] Agostino d’Ippona (354-430), meglio noto come Sant’Agostino, fu teologo, filosofo e vescovo di Ippona in Numidia (oggi Annaba in Algeria). Padre, Dottore e Santo della Chiesa Cattolica, fu il maggiore rappresentante della Patristica. I suoi lavori più importanti includono La Città di Dio, Sulla Dottrina Cristiana e le Confessioni. Grande importanza nelle sue opere ebbe la rielaborazione delle idee platoniche e neoplatoniche.

[19] La tesi di VT sul primato dell’amore rispetto all’essere si basa su di un equivoco. Nei tempi antichi l’individualità non aveva un indice di sviluppo paragonabile a quello odierno. Il legame con il divino e con le manifestazioni dell’essenza tendeva a predominare, per cui l’essere umano era ancora ‘immerso’ in un contesto in cui la sua natura era naturalmente sacralizzata, e il tipo di pratiche e di dottrine allora in auge riflettevano questa sorta di ‘sottomissione’ all’ordine superiore. Nei tempi odierni non è più così; la caduta nel regno dell’immanenza rende necessario un pieno sviluppo dell’individualità, di modo che l’ascesa non sia più sotto il segno dell’abbandono ma venga assunta in piena coscienza, e l’essere umano divenga così un essere vivente nella piena consapevolezza della sua natura divina, un immagine terrena del cosmo. In questo senso non è che si possa dire, come sostiene l’autore che, prima della venuta di Cristo, predominasse la spersonalizzazione; non era una colpa, perché l’allontanamento dallo spirituale era ancora di là da venire. Diverso è il discorso quando si tenta di applicare pratiche non più adatte all’ambito attuale.

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