Il mito di Saturno nell'Età Classica

Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. Iam Redit et Virgo, redeunt Saturnia Regna, iam nova progenies caelo dimittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet ac toto surget gens aurea mundo, casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo. [1]

Virgilio, Bucoliche, ecloga IV
Antoine Callet – Saturnalia (1783)

Pubblicato su: Atti del 6° Convegno Astrologico Torinese

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L’età d’oro nella Romanità

Per aspera ad astra: questa locuzione latina, tratta da un’opera di Seneca, [2] pare quasi riecheggi il travaglio dell’animo umano quando si trova ad affrontare le prove e le responsabilità simbolicamente espresse nell’oroscopo dal glifo saturnino, icona del più remoto tra i pianeti del settenario. La sua alterità, sintesi tra la distanza che lo separa dall’osservatore e il suo affacciarsi – ultimo tra gli astri erranti visibili – al cielo delle stelle fisse, ne fa un dio padre severo che viene a noi per il tramite del cimento, della sofferenza incomprensibile perché ritenuta immeritata, della prova reiterata, nei casi migliori dell’ottenimento attraverso un sacrificio. Per certi versi il nostro attuale rapporto con Saturno è il riflesso di un modello esistenziale e culturale il cui orizzonte si staglia non oltre le ampie distese gioviane – il conseguimento per mezzo dell’espansione, la crescita gerarchicamente ordinata dell’Io che annette a sé nuovi territori di conquista materiale e ideologica; ciò che esula dal conoscibile – il fato, l’accidente – si pone dinanzi come una parete montuosa priva di appigli, invalicabile ai più.

Saturno, assieme al suo fardello simbolico fatto di necessità, è ora relegato nel contesto che il mito stesso gli assegna. Difatti Esiodo ci narra [3] che Crono – Saturno per i Romani – è il più forte dei Titani generati dall’unione di Gea, la madre terra, con Urano, il cielo stellato. Urano è già un padre impietoso, che nasconde i figli appena nati nelle profondità della terra; Gea, gravata dal peso della situazione, crea nelle sue viscere l’essenza del ferro e ne estrude una falce, istigando Crono a evirare il padre. Compiuto l’atto Crono sposa la sorella Rea e memore del vaticinio del padre, il quale gli profetizza la sua stessa sorte, divora i figli avuti con Rea per timore di vedersi a sua volta spodestato; uno di questi, Zeus – Giove, scampato con uno stratagemma alla triste sorte, lo detronizza confinandolo nel Tartaro. È l’inizio di un’era, quella dei nuovi dèi, portatrice di una visione che al caos primigenio fa seguire la luce del pantheon olimpico, capace di disperdere le nebbie dell’Ade e ordinare il mondo secondo la ragione. È pur vero che Zeus possiede l’attributo della folgore divina, con la quale può punire in modo all’apparenza indiscriminato titani e mortali; ma al contrario si tratta sempre di una punizione annunciata, volta spesso a limitare conseguenze ancor più tragiche. [4]

Fin qui il mito di Saturno riecheggia l’inadeguatezza contemporanea di fronte all’inesplicabile. La caducità dell’esperienza umana, con il suo corollario di ore liete e meno liete sfugge – che dir si voglia – a qualunque pretesa di sistematizzazione razionale; ma gli dèi olimpici hanno esiliato i Titani, simbolo delle potenze telluriche e notturne instaurando – per così dire – una sorta di dittatura del visibile, [5] proemio ad un’era di certezze e di crescita del pensiero lineare che procede spedito verso la comprensione delle zone buie del nostro conoscere. Ma è realmente così? Possiamo vantare il primato della coscienza olimpica rispetto agli antichi dèi ed esorcizzare Saturno quando fa la sua comparsa, salvo subirne gli strali? Oppure dobbiamo tentare la via della riconciliazione e comprenderne il messaggio ora offuscato dal riverbero di Giove?


Le affabulazioni in forma di mito a cui ci abituano gli autori antichi appaiono spesso sconcertanti per il drammatico e repentino cambio di ambientazione e di associazione a cui sono soggetti i personaggi [6]. Ma non deve stupire più di tanto, quando si pensi che il mito risponde a condizioni culturali associate a tempi e luoghi specifici, pur permanendo inalterate le basi cosmologiche e metafisiche a suo fondamento. Così, otto secoli dopo la teogonia esiodea, Plutarco riprende a tessere i destini del dio ctonio partendo dal suo esilio, non più nella desolazione del Tartaro bensì oltre l’isola di Ogigia, la «Antica», teatro omerico della ninfa Calipso detentrice di Odisseo [7]. Secondo Plutarco, Crono giace in un’isola che geograficamente si potrebbe situare oggi nel nord Atlantico, nei pressi di un continente abitato da Greci adoratori dell’antico dio [8]. Ma lasciamo ora la parola all’autore [9]: “Crono dorme rinchiuso in una caverna profonda dentro una roccia color dell’oro. Il sonno è il carcere escogitato da Zeus per lui, e mentre uccelli scendono in volo sulla cima della roccia per recargli ambrosia, l’isola intera è pervasa da un profumo che si spande di lì come da una fonte. I demoni assistono e servono Crono dopo essergli stati compagni nel tempo in cui fu re degli dèi e degli uomini. Dotati di virtù profetiche, essi traggono da se stessi innumerevoli vaticini; ma quelli più gravi e sulle questioni più difficili scendono ad annunciarli come sogni di Crono: poiché ciò che Zeus premedita Crono vede in sogno, e le passioni titaniche e i moti dell’anima si manifestano in lui come una tesa rigidezza prima che il sonno gli restituisca il riposo e finché il suo carattere regale e divino non riemerga incorrotto”.

A seguito di questo cambio prospettico Crono ricompare non più come dio esiliato bensì come dio dormiente, il cui potenziale cova all’interno di una roccia dorata, simbolo della regalità. Se volessimo collocare il mito in un contesto astrologico vedremmo affiorare Saturno dal suo domicilio diurno dell’Aquario, a fronteggiare il potere solare del Leone; ma ora Crono è confinato nei recessi del regno minerale, è un dio notturno che evoca la realtà attraverso il sogno ed ha come servitori le anime raffinate e disincarnate dei sudditi di un tempo. Il suo dominio è quindi essenzialmente sul mondo lunare, la cui luce rimanda con un pallido riflesso i fasti divini che gli furono propri. Ora il racconto inizia a suscitare alcune perplessità; Crono fu bandito dal regno terreno a causa dei suoi atti esecrabili, l’evirazione del padre e la totale mancanza di pietà filiale. Ma allora perché egli continua ad essere amorevolmente accudito dai suoi antichi sudditi e venerato dai profughi greci che attorniano il luogo del suo riposo? E qual è il reale significato dei gesti che ne hanno segnato la condanna?

Plutarco segue uno stile rappresentativo che lo avvicina al pensiero dei cosiddetti filosofi presocratici (Talete, Pitagora, Eraclito, per citarne solo alcuni) in cui lo iato tra la scienza della natura e quella dell’uomo non è così marcato. La divinità è immanente nei processi naturali, nella molteplicità del divenire, e il mito è un linguaggio sincretistico che permette di leggere i fenomeni adombrandoli di figure rappresentabili in forma umana; in altre parole, quella di Plutarco è una visione antropocentrica mitigata però dalla consapevolezza che esistono delle norme universali all’infuori dell’uomo, ma che solo l’uomo può comprenderle e definirne il senso nella propria vita. In questa cultura della conciliazione non vi è spazio per le considerazioni di bene e di male: il lato oscuro e quello luminoso della manifestazione sono i due aspetti necessitanti del Tutto, e quindi anche i Titani come Crono presiedono di diritto allo svolgimento ordinato degli eventi universali. [10]


Il passo seguente consiste nello stabilire il senso delle azioni e il ruolo di questo re dei Titani. A tal fine non vi è nulla di più illuminante delle cronache lasciateci da Macrobio: “Kronos (Saturno) e Chronos (il tempo) non sono che lo stesso dio. Come i mitografi ammantano Saturno di finzioni, così i fisici [11] cercano di ricondurne la storia a un certa verosimiglianza. Dicono, costoro, che avendo Saturno tagliato i genitali del padre Cielo, e avendoli gettati in mare, ne nacque Venere che, dal nome della schiuma [12] da cui fu formata, prese il nome di Afrodite; ed ecco la loro interpretazione: quando tutto era caos, il tempo non esisteva ancora; in quanto il tempo è una misura tratta dalle rivoluzioni celesti; dunque il tempo è nato dal cielo; dunque è dal cielo che è nato Cronos (Saturno) che, come già detto, è Kronos (il tempo)”. [13]

Quale fu dunque la risultante dell’evirazione paterna? La separazione del cielo dalla terra, in termini astronomici l’instaurarsi dell’obliquità dell’eclittica che di lì in avanti segna l’inizio del tempo misurabile, ma anche della rottura dell’unità originaria. Saturno, in quanto primo pianeta ad affacciarsi sul cielo delle stelle fisse, figura come reggente del moto dell’Universo; alla fissità stellare, testimone dell’essenza dell’Essere di là da ogni mutamento, fa da contrappunto il corteggio degli dèi planetari espressione immanente della silenziosa volontà del cielo. La prima generazione del mondo, sotto l’egida di Urano, fonda un’era di sostanziale equilibrio; l’armonia regna sovrana, ma “il padre, il grande Urano, chiamava Titani i figli da lui generati: li volle distinguere con un nome biasimevole perché si erano macchiati di empietà compiendo un immane misfatto, di cui un giorno avrebbero pagato il fio.” [14] Il Titano è lo “sforzatore”, il “dilatatore”, secondo l’etimo greco della parola [15], colui che distorcendo la misura dell’ordine celeste rappresenta miticamente lo sconvolgimento astronomico che segna il distacco dell’uomo dal cosmo: ad un certo punto si scopre che il sorgere eliaco [16] di una costellazione non coincide più con il segno zodiacale di riferimento, a causa dello sfasamento indotto dalla precessione degli equinozi; è la perdita della perfezione narrata nelle tradizioni sapienziali di tutti i tempi, la fine dell’Età dell’Oro. Di lì in avanti la macina del tempo inizia a frantumare le ere dell’umanità, facendo sorgere e trascinando impietosamente nell’oblio imperi e civiltà. È per questo motivo che Macrobio insiste sull’equivalenza tra Cronos e Kronos, perché Saturno effettivamente con il suo atto diede inizio al tempo [17]; ed è sempre per questo motivo che Crono divora i suoi figli, in quanto il tempo porta a consumazione ciò che fa nascere.

È ancora Macrobio a narrarci con dovizia di particolari il mito della separazione dal cielo: [18]Così come i diversi principi di tutto ciò che ha avuto forma dopo il cielo discendono dal cielo stesso, e come i diversi elementi che compongono il mondo nella sua totalità discendono da questi principi, non appena il mondo fu terminato nell’insieme delle sue parti, arrivò il momento in cui i principi generativi degli elementi cessarono di discendere dal cielo, poiché la creazione di quegli elementi era ormai compiuta. Da allora, per perpetuare senza sosta la moltiplicazione degli animali, la facoltà di generare attraverso i fluidi (ex humore) fu trasposta all’azione venusiana; di modo che, da quel momento, tutti gli esseri viventi furono generati dall’unione del maschio con la femmina. A cagione dell’amputazione dei genitali, i fisici diedero al dio il nome Saturno, da Sathimus, derivato da satheh [19], che ha il significato di membro virile”. Cessata la generazione celeste, subentra la procreazione da uomo e da donna sotto gli auspici di Venere Afrodite, che dà inizio al ciclo dell’umanità. La funzione di Saturno pare esaurirsi ma in realtà non è così; egli è ancora il dio della misura del tempo, e dal suo sonno nei pressi dell’isola di Ogigia rammenta all’uomo il suo passato edenico, perduto ma sempre vivo nelle leggende e nei miti.


Uno degli autori classici più rappresentativi di queste tendenze millenaristiche è senz’altro Virgilio, che nella quarta ecloga delle sue Bucoliche [20] nomina un vaticinio la cui origine fa risalire alle profezie sibilline [21]; in esse si predice l’avvento di una nuova Età dell’Oro, testimoniata dalla nascita di un bambino sotto il quale sarebbero cessate tutte le guerre. Pur nella sua brevità, questo frammento è stato oggetto di svariati commenti nell’antichità come nel medioevo, proprio per la ricchezza di riferimenti a cui ha dato vita. In primo luogo, il richiamo al ritorno della Vergine, che in questo contesto è chiaramente Astrea, figlia di Zeus e di Themis (l’Irremovibile), dea della giustizia. Narra il mito che al degenerare del mondo, agli inizi dell’Età del Bronzo secondo Arato [22], Astrea volò in cielo, dove divenne la costellazione della Vergine nonché l’omonimo segno zodiacale. Virgilio vede dunque nel ritorno della costellazione della Vergine all’equinozio d’autunno – con il concomitante passaggio dei Pesci all’equinozio primaverile – l’inizio di una nuova era di pace e di benessere. Virgilio compose l’opera tra il 42 e il 39 a.C., proprio all’inizio dell’Era dei Pesci, ed infatti, come testimonia l’uso dell’avverbio iam, egli situa la profezia ai suoi giorni ed il puer di cui si parla altri non è che Asinio Gallo, figlio del console Asinio Pollone a cui sarebbe dedicata l’ecloga. L’incertezza di tale attribuzione permise comunque all’imperatore Ottaviano di identificarsi con la figura del puer, soprattutto dopo la vittoria navale di Azio del 31 a.C. che gli consentì di fregiarsi del titolo di Augustus, restauratore di un ordine che univa sacro e profano. Per tener fede alla profezia, che vedeva in Apollo il suo nume tutelare, Ottaviano ne fece restaurare i templi e diede nuovo impulso al culto del dio. Il riferimento ad Apollo è anche presente indirettamente nella figura di Lucina (Colei che porta alla Luce), uno degli epiteti di Era-Giunone sorella e sposa di Giove; Apollo è infatti il frutto di un amore di Giove per la titanide Leto. Nel Medioevo, in mancanza di altri riferimenti storici, fu quasi d’obbligo associare il puer a Cristo e la Sibilla Cumana alla Madonna, facendo di Virgilio il sapiente che per primo nel mondo romano annunziò il cristianesimo.

Questa parentesi che vede il mito al servizio dell’utilitarismo politico e religioso non ne sminuisce affatto l’autorevolezza, ma anzi ne esalta la presenza se pure con modalità improprie; del resto, secondo l’onnipresente Macrobio, la storia remota della nostra nazione è intimamente associata ai fasti dell’Età dell’Oro. Narra dunque Macrobio [23] che sulla regione chiamata Italia [24] regnava Giano, il dio bifronte. Questi diede ospitalità a Saturno, giunto per nave nel paese, il quale insegnò l’uso delle tecniche agricole migliorando grandemente la qualità dei cibi derivati dalla terra, che prima di allora erano raccolti e consumati allo stato selvatico. Giano e Saturno regnarono in pace e in accordo sullo stesso paese, instaurando un’era di uguaglianza e di prosperità, dalle due città che presero il loro nome: Gianicolo e Saturnia. Ad un tratto Saturno scomparve senza lasciare traccia e Giano, in segno di riconoscenza per ciò che aveva fatto, gli dedicò un altare e ordinò delle feste che in suo onore vennero chiamate Saturnali.


Qui assistiamo a una curiosa trasposizione del mito esiodeo in chiave romana. Giano bifronte è propriamente il dio che custodisce le chiavi delle porte (januae) solstiziali, porte che aprono e chiudono il ciclo annuale [25]; in senso temporale i suoi due volti rappresentano il passato ed il futuro, ma esiste un terzo volto, nascosto, che è quello del presente, inafferrabile perché si situa tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Ad uno sguardo atemporale il terzo volto è l’eterno presente che contiene tutta la realtà, che i due volti visibili manifestano in modo transitorio e contingente; un’eco di questa purezza incontaminata fuori del tempo traspare nelle parole di Macrobio, quando dice che durante il regno di Giano i frutti della terra erano illum et rudem, incolti e selvatici. Ma ecco giungere Saturno dal mare. Da dove viene? Non si sa esattamente, ma considerando il simbolismo del navigare, è possibile che egli abbia traversato le acque dell’oblio per approdare, dimentico degli atti che ne hanno decretato l’esilio, alla sua seconda vita di auctor temporum, nella fattispecie di maestro agricoltore che designa i tempi e i luoghi della semina, delle coltivazioni e dei raccolti. L’agricoltura esercita una funzione sacrale in seno alle civiltà tradizionali, perché enfatizza la correlazione esistente tra i cicli celesti e quelli terrestri.

Terminata quest’opera di ricucitura dello strappo da lui stesso cagionato, Saturno ritorna ad essere un dio dormiente che, come cita Proclo nel suo Commento al Cratilo di Platone “dà dall’alto i principi di intelligibilità al Demiurgo (Zeus) e presiede all’intera creazione” [26]. Sulla base di questo scorcio siamo in grado di delineare e di conciliare le funzioni apparentemente divergenti di Saturno: egli è prima di tutto il dio del Tempo, inteso quest’ultimo sia come tempo mitico, circolare, che eternamente ripercorre le ere dell’umanità scandite dal movimento precessionale, da questa “evirazione” delle vie del cielo; sia anche come tempo storico, lineare, che tenta un’improbabile via di fuga dall’ordinamento celeste. Ed è proprio questa deviazione che fa di Saturno un dio che vive sulla terra nei momenti più bui dell’umanità, come affermato in un frammento orfico che dice: “Orfeo ci ricorda che Saturno dimorò apertamente sulla terra e tra gli uomini[27]: egli fornisce le misure che consentono, almeno parzialmente, di mantenere i contatti con un cosmo che non è più specchio dell’armonia dei primordi. Oltre che dell’agricoltura Saturno si è fatto latore di un dono le cui vestigia permangono sino ai nostri giorni: i Saturnalia, di cui il carnevale è una trasposizione passata attraverso le maglie del cristianesimo.

Macrobio cita il fatto che durante le feste in onore di Saturno, che si tenevano a Roma nei giorni intorno al solstizio invernale (dall’VIII sec. a.C. fino al IV sec. d.C.), gli schiavi banchettavano assieme ai padroni. In questa temporanea inversione dell’ordinamento sociale si legge un ricordo dei tempi in cui, secondo Macrobio, non esistevano differenze di ceto né proprietà privata. In realtà egli non dice tutto perché, per sua stessa ammissione “non è permesso dare i significati occulti o quelli che non discendono dalla pura sorgente della verità[28]. Il fatto è che il solstizio invernale coincide con il momento in cui l’anno si rinnova, ovvero dove si ristabiliscono le condizioni anteriori all’inizio; è il tempo in cui si instaura il rovesciamento dell’ordine costituito, espressione simbolica della reintegrazione del mondo nel suo aspetto informale al passaggio tra due cicli cosmici. Lo stesso dicasi per la cerimonia di apertura dei festeggiamenti che si svolgeva al Foro Romano nel tempio edificato al dio da Tarquinio il Superbo intorno al 500 a.C. L’edificio fungeva da deposito per il tesoro pubblico poiché si diceva che, per tutto il tempo che Saturno soggiornò in Italia, nessun furto fu commesso sul suo territorio. Qui la statua del dio veniva liberata dai lacci di lana che la incatenavano alle colonne del tempio durante l’anno; tale allegoria designava la nascita ad una condizione originaria, la reminiscenza di un’età di pienezza libera dai legami della necessità.


[1] Già arrivò l’ultima età della predizione dei cumani, nasce per intero una grande serie di secoli. E già ritorna anche la Vergine, tornano i Regni di Saturno, già una nuova progenie discende dall’alto dei cieli. Tu, casta Lucina, proteggi il bambino che nasce ora, sotto il quale per la prima volta cesserà l’era delle armi e sorgerà nel mondo intero l’aurea razza: già regna il tuo Apollo”.

[2] Hercules Furens, atto secondo, v. 430. In realtà la locuzione è una sintesi rievocativa del detto: non est ad astra mollis e terris via (non è facile la strada che dalla terra porta al cielo).

[3] Teogonia, v. 150 sgg.

[4] Ovidio, Metamorfosi, XI, 1 sgg. ove si tramandano le gesta di Fetonte, figlio di Helios e della ninfa Climene il quale, preso dalla smania di guidare il cocchio solare del padre, inizia a sorvolare la terra; ma i cavalli, accortisi di essere condotti da mano inesperta, escono dal percorso normale seminando scompiglio e distruzione al loro passaggio. Zeus, per evitare il peggio, incenerisce il giovane con una saetta precipitandolo nei pressi del fiume Eridano (il Po).

[5] Etimologicamente il nome Zeus (gr. Ζευς) deriva dalla radice indoeuropea dyaus, parola che indica il cielo sereno e luminoso, da cui il sanscrito deva e il latino deus.

[6] Ad es. Eratostene (Catasterismi, I, 400), citato anche in Igino (De Astronomia, II, 42), dove Fetonte (v. infra, nota 4) viene associato a Saturno. In età ellenistica l’identificazione dei pianeti con le divinità cessò di essere fissa (Saturno poteva essere Fenonte, lo Splendido, o Nitturo, Guardiano della Notte).

[7] Odissea, VII, 244.

[8] Il collegamento mitico tra l’antica e nuova sede di Saturno è Briareo, il centimani (mostro dalle cento braccia e cinquanta teste) fratello di Crono, che la leggenda vuole sia stato scaraventato in mare da Nettuno dopo la guerra con Zeus. Per questa sua vocazione “marina” ora Briareo è il custode di Crono nei pressi di Ogigia. Per ciò che riguarda la collocazione delle isole e del continente Plutarco si rifà a miti e leggende sulla razza Iperborea, la cui trattazione in questo contesto è fuori luogo.

[9] Plutarco, De facie in orbe lunae, 942 f.

[10] In realtà la teoria del perenne scontro metafisico tra forze olimpiche e titaniche, oggi come in passato, rivaleggia ancora con la concezione che potremmo definire “unitaria”. Ad esempio Evola afferma che (Evola, J., L’Aquila, in Simboli della Tradizione Occidentale, Torino 1988, p. 64: “Secondo l’antica visione aria del mondo, l’elemento olimpico si definisce nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico… gli Arii vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime”.

[11] Da intendersi come filosofi fisici, ossia coloro che ricercano la physis o natura delle cose esterne, le leggi e la sostanza del mondo materiale e misurabile.

[12] In greco άfρóς (afrós). 

[13] Macrobio, Saturnalia, I, 8, 6.

[14] Esiodo, op. cit., v. 210 sgg.

[15] Gli etimologi fanno derivare il nome “titano” da τιταίνω: tendere, allungare, dilatare.

[16]Indica il sorgere di una stella esattamente all’alba.

[17]Questa equivalenza non è accettata da tutti i filologi, ma si impone comunque per aderenza al simbolismo.

[18] op. cit., I, 8, 8.

[19] In greco σάθη.

[20] V. infra, nota 1.

[21] Nella fattispecie alla figura semimitica della Sibilla Cumana, legata al culto di Apollo, il cui antro oracolare era situato a Cuma, nei pressi degli odierni Campi Flegrei.

[22] Arato di Soli, Fenomeni, vv. 200-205.

[23]   Op. cit., I, 7, 18 sgg.

[24] Cioè il “paese dei tori” nel senso di seguaci del dio-toro. Propriamente il nome Italia veniva associato alla porzione appenninica del paese.

[25] Cfr. René GuénonIl simbolismo solstiziale di Giano, in Simboli della Scienza Sacra – Milano 1975, p. 212 sgg.

[26] Cit. in de Santillana, G. von Dechend, H., Il mulino di Amleto, Milano 1983, p. 163.

[27] Ibid. p. 262.

[28] op. cit., I, 7, 18.

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