L'astrologia in bilico tra l'attitudine scientifica e la creazione contemplativa e poetica del senso delle cose

Pubblicato su: Osservatore Astrologico n. 7 aprile 1987

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Curiosamente non ho mai condiviso i dubbi dei colleghi circa la veridicità di particolari assunti dell’astrologia; né tanto meno lo sconforto di chi da essa si affranca per carenza di riscontri oggettivi. Dico curiosamente perché, pur coltivando la fondamentale sanità della formula dubitativa, tento di emanciparmi dal giudizio che tale procedura comporta: mi assale infatti la sensazione che l’incertezza divenga una sorta di palestra di guerra, dove si insegna a sconfiggere l’opinione nemica più che a capire ciò che sta realmente accadendo.

Voglio darvi un esempio di quello che intendo dire. Una sera discorrevamo, un amico ed io, sul potenziale previsionale dei transiti. L’amico, un serio cultore dell’arte di Urania (diciamo che si chiama Giovanni, ma non scervellatevi, il nome è fittizio) ad un certo punto dello scambio di opinioni intercala un’affermazione dal tono autoritario, che non ammette deroghe: “Ad esempio” – dice “ho notato per certo che non sempre i transiti dei pianeti lenti, che pure dovrebbero caratterizzare eventi importanti, danno una risposta evidente”. “Caro Giovanni” – rispondo, devo ammettere con fare saccente “il modo di azione dei transiti può anche manifestarsi a livello sottile, intendo dire psicologico o latente, se non vi concorrono elementi oggettivi a rivelarlo”. “Non sono d’accordo” – replica lui “il simbolismo di un transito deve produrre effetti omologhi nel destino di un individuo, tali da convalidarne il senso e permettere un pronostico quanto più preciso e veritiero. Proprio in questi giorni Giove è transitato sul mio Sole natale, e devo dire che non ha significato, per quanto mi riguarda, assolutamente nulla! Evidentemente” – conclude “l’aurea chiave interpretativa che possedevano gli astrologi del passato è andata perduta”.

Da un punto di vista epistemologico, cioè per quanto riguarda la pura ed immutabile espressione dei fatti, il partito dei “Giovanni” ha ragione. L’imporsi della cosa in sé, nel caso in esame la corrispondenza univoca del rapporto micro – macrocosmico, induce a una riflessione sulla incompletezza della nostra percezione in merito all’ordinamento celeste; da cui la ricerca di un’aurea via interpretativa – aurea perché trascende la sembianza per accostarsi all’essenza – che risolva una volta per tutte l’incongruenza tra le cose come appaiono e il loro senso nascosto.


Platone chiama filosofi coloro che hanno cura del sapere (sophia), ove è sottinteso che sapiente è colui che cerca la luce (phàos), o meglio ciò che si manifesta grazie alla luce. Per contrapposizione egli chiama filodoxoi gli uomini che si fermano alle apparenze sensibili (doxa) delle cose, alla superficie degli eventi. Questa distinzione comporta l’avvio di un processo a spirale che dalla periferia, cioè dal massimo disordine dell’informazione astrologica (i fisici lo definirebbero un sistema a minima entropia) giunge alla definizione ontologica, al principio metafisico che sottende alla manifestazione.

Giovanni è dunque un filosofo, uno strenuo esegeta della verità che si cela dietro alle apparenze. La verità è luce, ovvero ciò che non è nascosto alla visione cosciente. Come il Sole illumina corpi altrimenti oscuri, così la coscienza contiene in sé i germi della visione, dell’elevazione rispetto alle cose della terra. Da un tale punto di vista si può sostenere che non vi è sostanziale differenza tra uno sviluppo dell’astrologia in seno a una concezione scientifica e un approccio ermetico – esoterico, base di ricerca della cosiddetta via aurea. Entrambi gli indirizzi sono una produzione del platonico “mondo delle idee”, dell’immutabile essenza delle cose sensibili, base dell’unico criterio che consente di definire le cose come esse sono, al di là della transitorietà che gli eventi denotano all’apparenza. La diversità tra lo scientifico e l’esoterico in astrologia è che nell’un caso il principio procede per assuefazione a fenomeni innumerevolmente ripetuti, che via via definiscono un ambito di sperimentazione entro il quale “oscillano” leggi e significati; nell’altro le risultanti sono dogmaticamente determinate da una serie di postulati centrali (ad esempio il nome nell’astrologia onomantica) da cui emana, tramite decrittazione, una e una sola serie di informazioni. Per quanto nei secoli successivi alla rivoluzione industriale sia andato accentuandosi, specie ad opera del positivismo, l’atteggiamento naturalistico a scapito di quello metafisico, non vi è dubbio che l’astrologia abbia saputo cogliere da entrambi un notevole impulso vitalistico.


Ora giungiamo all’origine dell’umana aspirazione: il cosmo, l’ordine che si impone sopra tutto, la dimensione che include le cose che si offrono alla presenza. La statura eretta è del resto un doveroso richiamo all’ampliamento panoramico, al trascendimento delle forze ctonie, alla resa intelligibile degli eventi attraverso l’avvicinamento ai moti uranici, alle cose del cielo. L’astrologia ha una funzione divinizzante in quanto affranca dall’imperfezione e dall’irregolarità dell’esperienza immanente per consentirci di splendere alla luce del giorno nel mondo delle forme pure. Ma nel momento in cui sia la doxa che la sophia, l’apparenza e la sapienza, ci testimoniano l’una in modo empirico e l’altra in modo dogmatico la presenza di una luce ordinatrice, cosa rimane del lato oscuro, della dimensione fallace dove l’interpretazione astrologica non rende un significato visibile? Qui penetriamo nel regno del caos, della mescolanza, del disordine magmatico che è peculiare alla condizione umana; le limitazioni di tempo, di spazio, di percezione sensoria ci inducono a sperimentare uno stato dove l’evento, come astro che tramonta all’orizzonte, scompare alla regolarità e diviene diacronico, muta attraverso il tempo.

È a questo punto che l’astrologo si fa poeta, manipolatore di una realtà oggettiva che egli traduce in forma di potenze astrali. L’astrologo come poeta, a differenza del filosofo e dell’epistemologo, non si attesta al fatto bensì lo produce, lo soggettiva per poi oggettivarlo in forma di realtà esteriore. Si dice che il mýthos, la parola, sia lo strumento della poiesis, l’imposizione umana alle cose del cosmo. La poesia vive di totalità che include ogni possibile situazione, in accordo del resto con la derivazione indoeuropea dell’etimo ‘chàos’ (origine, apertura).

La totale apertura è in-cosciente, caotica appunto, al di là di qualsiasi processo di riconoscimento; il logos è la raccolta delle cose secondo una definita sequenza vibratoria. I pitagorici, dal canto loro, interpretarono l’ordine del logos sia in termini di armonia vibrazionale, musicale, che in termini numerici, come asserisce Filolao: “Tutte le cose che si conoscono hanno numero: senza questo, nulla sarebbe possibile pensare, né conoscere” [1] Il logos cosmico ebbe la prerogativa di ‘espiantare’ dall’essere umano gli attributi transitori in vista di un adeguamento al piano divino, precorrendo l’affrancamento dalle imperfezioni della materia. Questo afflato verso la luce, appannaggio nel I sec. d.C. della gnosi paleocristiana, ebbe conseguenze ben più drastiche nelle formulazioni addotte dalla gnosi eterodossa, che vide nel processo separativo tra la Terra e il Cielo una possibilità per l’uomo di assurgere a produttore intenzionale del proprio destino, non più pedina inconsapevole di moti cosmici e di volontà divine. Fu la separazione del Cosmo da Dio, e dell’uomo dal mondo, e dunque la scissione tra l’Unità originaria, divenuta inconoscibile, e la materia terrena fonte di angoscia e di solitudine perché priva di senso. Comunque, anche nella gnosi eterodossa è presente la parabola della salvazione, non più ad opera di un Redentore figlio di Dio ma di Colui che pronuncia il nome, e pronunciandolo individua e risveglia l’essere distinguendolo dall’indifferenza della Terra e riabilitandolo alla sua vera patria, quella celeste.

La gnosi, quale punto di approdo di secoli di filosofia ellenistica, e in quanto movimento sincretistico tra la speculazione occidentale e la sapienza orientale, ha lasciato un solco profondo nell’esposizione dialettica dei fondamenti dell’astrologia. Ma è con il neoplatonismo di Plotino, razionalizzatore di quell’Uno ineffabile rivisitato in termini di fede dai patristici medievali, che il pensiero greco tocca i suoi vertici e primeggia rispetto ad altre forme di fede e di speculazione. In un bellissimo passo delle Enneadi, Plotino fa parlare la Natura, che dice: “L’essere che nasce è visione. La mia silenziosa visione è una visione che mi sorge nativamente … ond’è che l’atto stesso del mio contemplare crea” [2] .

Molto si è detto sulle similitudini tra gnosi neoplatonica e dottrine orientali. In effetti il passo sopraccitato presenta straordinarie affinità con alcuni aspetti della dottrina buddista, laddove la natura è definita la capacità di manifestarsi della vacuità (vacuità nell’accezione buddista di mancanza di esistenza inerente dei fenomeni), e visione è l’energia dell’individuo che “apparentemente” viene assunta come esterna o in illusoria separazione di percipiente e percepito. Dunque la diatriba tra i sostenitori di un’astrologia esoterica ed i fautori di una maggiore scientificità metodologica si riduce a un’eterna questione di dualismo, di contrapposizione totale o complementare tra le signorie della luce e delle tenebre: questione davvero insanabile se si rimane nei termini del rifiuto o del giudizio. L’esoterismo in astrologia tenta di allontanare il dubbio attraverso la razionalizzazione (anche numerica) del processo ontologico, ma così facendo afferma il suo contrario, la molteplicità, in quanto “pensa” l’Unità e quindi si pone al di fuori di essa. Per contro i propugnatori del metodo scientifico si attengono alla doxa, alla sembianza, e alla praxis, l’intervento umano sul metodo stesso, astraendone un principio che imita la consistenza ontologica. Per quanto entrambi i metodi gravitino in un’area di definizioni che va dal certo al probabile, essi non posseggono la capacità di produzione poetica della realtà. Non ho intenzione di entrare in merito all’effettiva incisività previsionale della mantica astrologica. Ciò che fin qui ho inteso commentare era il processo ideativo che ha, se non originato, almeno accompagnato sino ai nostri giorni la weltanschauung astrologica.

L’intervento poetico segue il filone della theorìa, la contemplazione che è visione produttiva, non-separativa tra osservatore e fenomeno. Un’astrologia contemplativa ha come base – ipostasi – l’auto-conoscenza, e dunque l’esperienza immanente diviene come un gioco o un ornamento di liberazione (il saggio è libero dal moto delle cose celesti …). Svelare un destino non è di nessuna utilità se non si ha la fortuna di vivere nella presenza della propria compiutezza. Anzi si può dire che l’ideale della pratica astrologica è, come per la medicina, poterne fare a meno.


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