La Luce che nasce dall’Oscurità
Estratti dall’opera: Meditation on the Tarot: A Journey Into Christian Hermeticism, London 1982 – Trad. dall’inglese, adattamento e note di Daniele Duretto
Il Dono della Perfezione Nera (o il Dono della Notte Perfetta)
Gli Arcani del Tarocco, devo sottolineare, sono esercizi spirituali. E il nono Arcano, l’Eremita, è uno di essi.
Per tale ragione, le meditazioni precedenti sulle tre antinomie mirano non tanto a una soluzione delle stesse volta a soddisfare tutti, ma piuttosto a incoraggiare il tentativo orientato alla soluzione di queste antinomie. Potreste certamente risolverle in un modo più profondo e soddisfacente; ma si tratta, nel caso delle soluzioni che ho proposto in precedenza, soprattutto della descrizione concreta (che è, lo so, lontana dall’essere la migliore) di uno sforzo individuale condotto attraverso degli speciali esercizi spirituali. Questi consistono nel mettervi di fronte a una tesi e a un’antitesi, entrambe espresse nel modo più chiaro possibile – dovrei dire: come luce cristallizzata – in modo tale che la luce intellettuale che avete a disposizione possa quindi concentrarsi nelle due tesi opposte. Giungerete quindi a uno stato mentale in cui tutto ciò che conoscete e che percepite con chiarezza è convogliato nella tesi e nell’antitesi, come fossero due raggi di luce, mentre la vostra mente si immerge nell’oscurità. Non conoscete e non vedete altro che la luce di queste due tesi opposte; oltre ad esse rimane solo l’oscurità.
Ed è allora che si assume il significato essenziale di questo esercizio, ovvero il tentativo di attrarre luce dall’oscurità, cioè lo sforzo che mira alla conoscenza che vi appare non solo sconosciuta ma anche inconoscibile.
Infatti, ogni seria antinomia ha psicologicamente questo significato: “la luce che possiedo è polarizzata; tra questi due poli luminosi c’è solo oscurità”. Ora, è da questa oscurità che si deve attrarre la soluzione all’antinomia, la sintesi. È necessario creare la luce dall’oscurità. Si potrebbe dire che l’atto è analogo al fiat lux di Genesi 1:3 del primo giorno della creazione.
L’esperienza ci insegna che vi sono due tipi di oscurità nel dominio della coscienza. Uno è quello dell’ignoranza, della passività e dell’indolenza, che è l’oscurità “infra-luce”. L’altro, per contro, è l’oscurità della somma conoscenza, dell’attività intensa e del tentativo di portare le cose a termine – questa è l’”ultra-luce”. È in quest’ultima oscurità che giacciono le istanze che cercano di risolvere un’antinomia o di trovare una sintesi.
La letteratura ermetica moderna (del diciannovesimo e ventesimo secolo) tiene in considerazione la “neutralizzazione dei binari”, cioè il metodo dove si trova il terzo termine, o termine neutrale, per i due termini (“binari”) corrispondenti ai principi attivo e passivo. In Papus troverete gli esempi seguenti di questa “neutralizzazione” (Traité Elementaire de science occulte, Paris 1888, p. 121):
Padre (+) | Madre (-) | Figlio (n) |
Luce (+) | Oscurità (-) | Crepuscolo (n) |
Sole (+) | Luna (-) | Mercurio (n) |
Il metodo della “neutralizzazione dei binari” (il termine era in uso in Russia; non sono sicuro sia usato in Francia) [1] è generalmente considerato dagli occultisti e dagli autori ermetici come un metodo tradizionale dell’ermetismo.
Ora, un binario può essere “neutralizzato” in tre modi differenti: (1) in alto (sintesi); (2) in orizzontale (compromesso); e (3) in basso (mescolanza).

La neutralizzazione superiore ha luogo quando il termine neutrale viene trovato su un piano più elevato rispetto al piano del binario stesso.

La neutralizzazione orizzontale si realizza trovando il termine mediano tra i due termini del binario sul piano del binario stesso.

La neutralizzazione inferiore è attuata quando si riduce il binario a un terzo termine su un piano sottostante a quello del binario, attraverso la mescolanza.
Per illustrare le tre modalità di “neutralizzazione” dei binari, ci serviremo come esempio della “figura colorata” dello scienziato tedesco Wilhelm Ostwald [2] (cfr. Die Farbenfibel [Guida al Colore] – Leipzig 1916). La figura colorata di Ostwald è formata da due coni [3].
Questo corpo ha quindi un “polo nord”, un “polo sud” e un “equatore”.

Il “polo nord” è il punto bianco che è la sintesi di tutti i colori. Questa luce bianca si fa sempre più differenziata a mano a mano che discende verso l’”equatore”. Qui i colori giungono alla loro massima differenziazione e intensità individuale.
Quindi, per esempio, il rosso è solo presente in potenza nel punto del “polo nord”, poi diventa rosato non appena si abbassa di grado, poi rosa, poi rossastro prima di diventare di un rosso brillante quando raggiunge l’”equatore”. L’”equatore” consiste dunque di sette colori (i sette colori dello spettro visibile) alla loro intensità massima. Gli stessi colori, nel continuare la discesa dall’”equatore” verso il “polo sud”, perdono gradatamente la loro luce cromatica e diventano più scuri.

Quando raggiungono il “polo sud” perdono tutte le distinzioni e diventano uniformemente neri. Il “polo sud” è quindi il punto nero della figura colorata, proprio come il “polo nord” è il punto bianco.
Il “punto bianco” è la sintesi di tutti i colori; è la loro “neutralizzazione superiore”, nella luce. L’”equatore” è la regione di massima distinzione tra i colori. È lì che si stabilisce la transizione tra un colore e l’altro. È la regione dove si effettua la “neutralizzazione orizzontale”. Il “punto nero”, infine, è quello della confusione di tutti i colori, dove essi si perdono nell’oscurità. È la regione della “neutralizzazione interiore”.
La figura colorata di Ostwald, inventata dal suo creatore a vantaggio dell’industria tessile e dei capi colorati, consente di visualizzare con precisione la “latitudine e longitudine” di qualunque sfumatura e grado di intensità di ciascun colore, e può quindi essere utile – certamente a insaputa del suo inventore – per le meditazioni ermetiche come base fondamentale per una catena di analogie.
Siamo quindi in grado, per analogia, di concepire il punto bianco o “polo nord” come saggezza, l’”equatore” come una famiglia di scienze particolari della conoscenza umana, e il “punto nero” o “polo sud” come ignoranza. Ora, la saggezza è la sintesi superiore di tutte le singole scienze della conoscenza umana. Le contiene simultaneamente, indifferenziate al suo interno, come la luce contiene i sette colori prismatici. La “neutralizzazione” o sintesi del binario “giallo-blu”, ad esempio, può quindi compiersi elevandosi verso il “punto bianco” della saggezza.
Un metodo ulteriore per trovare il terzo termine del binario “giallo-blu” è quello di scorgere il punto di transizione dal giallo al blu sulla scala equatoriale dei colori prismatici , che è esattamente a metà della distanza che separa “il punto più giallo” dal “punto più blu”, ovvero, il punto verde.
Infine, vi è un terzo metodo di “neutralizzazione” – che è la direzione sotto l’equatore. Questa è la direzione verso il “punto nero”, dove i singoli colori scompaiono nell’oscurità. La “neutralizzazione del binario “giallo-blu” si effettua, secondo questo metodo, quando si trova un punto, sulla scala del cono rovesciato del corpo colorato, dove il giallo e il blu cessano di essere distinguibili dal nero di cui vanno a far parte.
Se ora invece consideriamo il binario “giallo-blu” come quello della “matematica-scienza descrittiva” o “matematica-scienza fenomenica”, e applichiamo i tre metodi di “neutralizzazione”, otteniamo una formula si sintesi trascendentale, un’altra di compromesso o equilibrio e la terza che è indifferente, nel modo seguente:
Sintesi trascendentale: “Dio geometrizza; i numeri sono i creatori dei fenomeni” (la formula di Platone e dei Pitagorici).
Equilibrio: “Il mondo è ordine, cioè i fenomeni mostrano i limiti dovuti all’equilibrio che noi chiamiamo misura, numero e peso” (la formula di Aristotele e dei Peripatetici [4]).
Indifferenza: La nostra mente riduce i fenomeni a numeri così da renderne più facile la gestione da parte della mente” (formula degli Scettici [5]).
Vediamo, quindi, che il Platonismo è orientato verso il “punto bianco” della saggezza, l’Aristotelismo si muove nella regione “equatoriale”, regione di distinzioni precise, e lo scetticismo tende verso il “punto nero” del nichilismo.
Parlando di Ermetismo, l’Eremita sorregge la lampada che rappresenta il “punto luminoso” della sintesi trascendentale; è avvolto in un mantello a pieghe, per sviluppare quelle particolari qualità che trovano spazio nella regione dell’”equatore”; e si sostiene con un bastone per farsi strada nel dominio dell’oscurità, nella regione del cono rovesciato culminante nel “punto nero”. Egli è quindi un seguace di Platone Peripatetico (in viaggio verso l’”equatore”), e che si serve dello scetticismo (il suo “bastone”) mentre cammina. Ecco perché l’interpretazione tradizionale del nono Arcano è Prudenza.
La prudenza è consapevolezza costante dell’essere tra due oscurità – l’oscurità del “punto bianco” della sintesi assoluta superiore, che è abbagliante e che richiede una preparazione spirituale lenta e graduale al fine di essere in grado di sopportarne la luce senza essere accecati, e l’oscurità del punto nero, quella del subconscio inferiore. La prudenza è allo stesso tempo “concentrazione mobile” che procede da un singolo colore ad un altro nella “regione equatoriale” tra i due poli opposti. Essa è avvolta nel mantello delle loro “sinossi”, non come una conoscenza mentale onnipresente, ma piuttosto come sottofondo di ciascuna branca particolare della conoscenza – come certezza della fede nell’unità che certamente l’avvolge e con cui si veste, ma che è aperta sul davanti per fare spazio all’uso della lampada (visione orientata) e del bastone (concentrazione tattile).
La prudenza non implica una visione sempre presente nella mente, che sia il “punto bianco” della sintesi o la “sinossi” dell’arcobaleno di colori. È una presenta avviluppante, come il subconscio che avvolge il conscio, ed è presente solo come forza di orientamento, come un’inclinazione a dirigersi e un impulso fondamentale in relazione al conscio. La prudenza non elabora mai un “sistema assoluto” per sintetizzare tutta la conoscenza. Si occupa solamente di problemi particolari sulla base della loro sintesi presente nei livelli profondi della consapevolezza. Una sintesi generale onnicomprensiva si forma a un livello di coscienza diverso da quello che il sé conscio utilizza per il lavoro intellettuale. È così che il prudente Eremita è in grado di offrirvi dozzine di risposte a dozzine di domande, offrendole spontaneamente e senza apparentemente curarsi di un loro mutuo consenso, e voi avreste l’impressione che ogni domanda specifica sia assolutamente ad hoc e che non sia in alcun modo originata da un preconcetto intellettuale. Vi chiederete, forse, se non sia un caso di “poesia intellettuale”, dove ogni singola risposta appare spontaneamente e ingenuamente, sebbene sia certamente appropriata e conclusiva.
Questa sarebbe la prima impressione. Tuttavia, dopo riflessioni e ripensamenti, scoprireste che tutte queste risposte ad hoc spontanee e benintenzionate dischiudono una “totalità’”, una sintesi organica dietro di esse, e che in essenza sono prodigiosamente congiunte, e in essenza costituiscono l’articolazione di un’unica “parola”.
Allora capireste il ruolo del mantello che avvolge l’Eremita quando usa la sua lampada per vedere chiaramente nei singoli problemi, e quando usa il bastone per sondare il terreno. Il “mantello” è la presenza a un livello profondo di consapevolezza della verità assoluta, che è ciò che avviluppa e ispira tutto il lavoro intellettuale relativo a un problema specifico portato a termine dal sé cosciente con la lampada e il bastone. È ciò che dà alla coscienza stile e direzionalità, vedendo che ogni soluzione a un problema specifico è in armonia con il tutto. La verità assoluta abita in profondità, ed è lì presente come certezza della fede assoluta, come certezza del segno dell’autorità che viene dall’alto.
L’iniziato non è qualcuno che conosce ogni cosa. È una persona che reca la verità ad un livello profondo della sua coscienza, non come sistema intellettuale, ma piuttosto come uno strato del suo essere, come un “mantello” che lo avvolge. Questo segno di verità si manifesta come certezza incrollabile, cioè come fede nel senso di voce della presenza del vero.
La verità conseguita attraverso la sintesi è presente a un livello di coscienza più profondo della coscienza del sé. Si trova nell’oscurità. È da questa oscurità che vengono emessi i raggi di luce delle branche specifiche della conoscenza, come risultato degli sforzi che aspirano alla “neutralizzazione dei binari” o alla “soluzione delle antinomie”. Questi sforzi non sono niente altro che escursioni nella regione dei livelli di consapevolezza profondi; sono contatti stabiliti con l’oscurità interiore, che è colma di rivelazioni del vero.
La conoscenza e il potere tratti da questa regione oscura e silente di certezza luminosa possono essere ben descritti come il “dono della Notte Perfetta” menzionato nel Kore Kosmou, il libro sacro di Ermete Trismegisto.
Il “dono della Notte Perfetta” si manifesta in conseguenza di tale impresa spirituale, come è implicito nella “neutralizzazione dei binari” o nella “soluzione delle antinomie”. È. Si può dire, la vera essenza dell’Ermetismo e ne costituisce allo stesso tempo il metodo proprio e la facoltà della conoscenza al cui esercizio è dovuta la sua esistenza.
L’Eremita è l’immagine spirituale di colui che segue il metodo ed esercita la facoltà del “dono della perfezione nera” (o “dono della Notte Perfetta”). Siccome il metodo include la vera imparzialità, cioè la ricerca della sintesi delle antinomie e del terzo termine dei binari, l’ermetista deve necessariamente essere un solitario, vale a dire un eremita. La solitudine è il metodo proprio all’Emetismo. Perché si deve essere profondamente soli per essere in grado di esercitare il “dono della Notte Perfetta” di fronte ai contrari, ai binari, alle antinomie e alle parti che dividono e lacerano il mondo del vero. Colui che cerca la sintesi, cioè la vera pace, non può mai parteggiare o porsi in contrasto. E siccome è esattamente il “prendere parte” che raggruppa le persone in comunità e le divide in sezioni, l’ermetista deve essere necessariamente solo. Egli non può né abbracciare una causa umana senza riserve, né opporsi a una qualunque causa umana, perché è leale alla causa della verità, che è sintesi e pace. Questo è il motivo per cui è condannato, che lo voglia o no, a una profonda solitudine. È un eremita nella sua vita interiore, qualunque sia la sua vita esteriore. Non potrà mai sperimentare la gioia di immergersi nella collettività nazionale, sociale o politica. Non potrà mai avere la meravigliosa esperienza di condividere il peso della responsabilità con la moltitudine, e non potrà mai essere parte di feste – o orge – nel senso implicito delle parole “noi francesi”, “noi tedeschi”, “noi ebrei”, “noi repubblicani”, “noi fedeli alla Corona”, o “noi comunisti”. L’intossicazione data dal tuffarsi nella collettività non gli è data. Egli deve essere sobrio, cioè solo. Perché la ricerca della verità attraverso la sintesi – che è pace – implica prudenza, e la prudenza è solitudine.
Questo è il motivo per cui il Vangelo mette i pacificatori allo stesso livello dei poveri di spirito, di coloro che piangono il lutto, di coloro che sono affamati e assetati di rettitudine e di coloro che sono perseguitati per amore della virtù, assegnando loro un’altra benedizione in luogo di quella di cui sono privati:
Beati quelli che si dedicano alla pace, perché essi saranno chiamati figlioli di Dio.
— Matteo 5:9
È ciò che è detto nel Sermone della Montagna per coloro che rifiutano di prendere posizione di fronte a verità parziali e pregiudizi, dedicandosi alla causa della verità assoluta che unisce il mondo e vi porta pace.
L’Eremita itinerante – con il suo mantello, la lampada e il bastone – è un “commesso viaggiatore” di pace. Si fa strada tra le opinioni, credenze, esperienze – e traccia il suo percorso in modo da attraversare la via della pace attraverso le opinioni, le credenze e le esperienze, sempre dotato di mantello, lampada e bastone. Lo fa da solo, perché cammina (e nessun altro può camminare con lui) e perché il suo lavoro è la pace ( che è prudenza, e quindi solitudine).
Comunque, non c’è bisogno di averne pietà. Perché ha le sue gioie, e queste sono intense. Quando, ad esempio incontra un altro eremita itinerante sulla sua strada, che gioia e che felicità da questo incontro tra due viaggiatori solitari! Questa gioia non ha nulla in comune con quella dell’intossicazione da sentimenti liberi dall’onere della responsabilità che l’immergersi nella collettività porta con sé. Al contrario, è la gioia della responsabilità che incontra la medesima responsabilità, e che insieme condividono e alleviano la responsabilità di un terzo – di colui che disse della sua vita terrena:
Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo.
— Matteo 8:20
Perché egli è il Maestro che tutti gli eremiti itineranti seguono e servono. È allora la gioia di due che si incontrano nel suo nome, e dove egli è “presente”.
Poi ci sono le gioie del silenzio profondo, pieno di rivelazioni, e quelle del cielo stellato, la cui presenza solenne parla il linguaggio dell’eternità, e le gioie delle costellazioni stellari, dei pensieri, e dell’aria del respiro intrisa di spiritualità! No, non si deve aver pietà dell’Eremita. Sebbene, come il suo Maestro, non abbia dove posare il capo, egli è già benedetto dalla buona sorte che il Maestro promise ai pacificatori. Ha la fortuna di partecipare all’opera del Figlio di Dio, prendendo parte alla solitudine della vita terrena del Figlio dell’Uomo.
I pacificatori – gli eremiti – non procurano in alcun modo la pace “a tutti i costi” e senza alcun tipo di distinzione. Perché la pace si può conseguire in molti modi, , ed è ancora necessario distinguere tra pace e Pace. La figura colorata di Ostwald può ancora esserci d’aiuto nella soluzione di questo problema. Il “punto bianco”, l’”equatore dei colori viventi” e il “punto nero” di questa figura ci serve come base, per analogia, per il problema dei diversi tipi di pace e dei modi diversi di realizzarla.
La pace è unità nella diversità. Non c’è pace dove non c’è diversità, e non c’è pace dove c’è solamente diversità.
Ora, l’unità dove la diversità scompare non è pace. Per tale ragione, sebbene il “punto bianco” della figura colorata, dove tutti i colori affogano nella luce, sia certamente ciò che rende la pace possibile, non è pace come tale, presa in se stessa. Similmente, il “punto nero” della figura, dove tutti i colori scompaiono nell’oscurità, non è il punto di pace, ma piuttosto il punto di morte della diversità e dei conflitti che la diversità può produrre. È dunque l’”equatore dei colori viventi” la vera regione della pace. I colori viventi dell’arcobaleno che appare nel cielo sono la manifestazione visibile dell’idea della pace, perché l’arcobaleno ci permette di vedere l’unità nella diversità dei colori. Lì l’intera famiglia dei colori ci si presenta come sette sorelle che si tengono per mano. Per tale ragione l’arcobaleno è un segno di pace (o di alleanza) tra cielo e terra, come nella Genesi di Mosè:
E Dio disse: Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni a venire. Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno del patto tra me e la terra.
— Genesi 9:12-13
Ora, sono possibili quattro tipi di pace, intesa come eliminazione di conflitto o opposizione: pace trascendentale (“nirvanica”), pace immanente (“cattolica”), pace per predominio (“egemonica”) e la pace della morte (“nichilistica”).
La pace trascendentale o “nirvanica” corrisponde al “punto bianco” della figura colorata. La pace immanente o “cattolica” è la manifestazione del vissuto simultaneo di tutti i colori dell’arcobaleno e corrisponde all’”equatore” della figura colorata. La pace per predominio, o “egemonica”, corrisponde alla risultante della tendenza di un colore specifico a eclissare gli altri colori nella regione dell’”equatore dei colori” e a inghiottirli così che rimanga un solo colore. La pace della morte, o pace “nichilistica”, corrisponde al “punto nero” della figura colorata, e rappresenta il livellamento assoluto di tutte le diversità. Di questi quattro tipi di pace, è solo la pace che abbiamo designato come “immanente” o “cattolica” (universale) ad essere la pace vera e reale. È la pace della fraternità e del mutuo completarsi.
Siccome l’Eremita ha come ideale questo tipo di pace, egli non si presenta nella carta nella postura del padmāsana del buddhista o del meditatore yogico che mira alla pace trascendentale del nirvana, né si presenta seduto sul trono del potere nell’atto di fare un gesto di comando, né giace addormentato o morto sulla terra, ma invece si presenta camminando. Cammina, cioè percorre l’”equatore dei colori viventi” della figura colorata, e la sua via è quella della pace nel senso di unità nella diversità.
Ne segue dal precedente che l’Eremita, cioè il serio ermetista, non è in alcun modo un “neutralista” – sebbene si applichi alla neutralizzazione dei binari o polarità, alla risoluzione delle antinomie o opposti, e alla pace dell’arcobaleno o unità nella diversità. Egli sa quando dire “no” alle tendenze che mirano a una falsa pace – quelle dell’indifferenza trascendente, del soggiogamento al nichilismo – proprio come sa quando dire “sì” a tutto ciò che mira alla vera pace o all’unità nella diversità.
Egli sa quando dire “sì” e “no” – queste due parole magiche della volontà, per il cui tramite la volontà è forte, e senza le quali essa si addormenta. “Sì e no” – è questa la vera vita della volontà, la sua suprema e unica legge. La volontà non conosce un terzo termine tra, oltre, sopra o sotto il “sì e no”. “Amen” e “anatema [6]” non sono solo le formule solenni della liturgia che riassumono l’affermazione e la negazione finali, ma anche quelle della volontà che vive e tiene desti. La volontà in quanto tale non è mai imparziale, neutrale o indifferente.
Siamo ora giunti a un’ulteriore antinomia – un’antinomia pratica: “saggezza-volontà” o “sintesi universale-azione specifica” o, ancora, “conoscenza-volontà”. Si deve conoscere, cioè vedere l’unità nella diversità, e si deve volere, cioè aprirsi un varco nell’unità contemplata, con una spada affilata che separa entrambe le scelte – il “sì” e il “no” – della volontà. Diventare contemplativi significa votarsi all’inattività. Diventare attivi è, in ultima analisi, volgersi all’ignoranza.
Si può certamente scegliere uno stile di vita contemplativo, ma a quale prezzo? L’analogia che segue illustra il prezzo dello scegliere la contemplazione come percorso principale e preoccupazione centrale della vita:
Una nave trasporta i passeggeri e l’equipaggio composto dal capitano, dagli ufficiali e dai marinai. Si può dire del battello come della società umana, che viaggia attraverso i secoli. Anche quest’ultima trasporta l’equipaggio e i passeggeri. I membri dell’equipaggio vigilano che la nave segua la sua rotta e che i passeggeri siano in buona salute. Ora, prendere parte a una vita contemplativa implica la decisione di divenire un passeggero della nave della società umana e lasciare la responsabilità della rotta, per il benessere proprio e degli altri passeggeri, all’equipaggio – il capitano, gli ufficiali e i marinai. Si diventa quindi passeggeri della nave della storia umana quando si sceglie una vita contemplativa. È il prezzo morale di questa scelta.
Nondimeno, ci si deve guardare dalla conclusione diretta – ma superficiale – che tutti gli “eremiti” e i “contemplativi” dei vari ordini religiosi siano dei passeggeri. Nulla è più lontano dalla realtà. Perché tra questi “contemplativi” si trovano spesso non solo marinai e ufficiali dell’equipaggio, ma pure capitani. Questo perché il loro lavoro e le finalità sono soprattutto pratiche, anche se spirituali, ed è così. La preghiera, il servizio divino, lo studio, e una vita austera e disciplinata, sono un’impresa molto attiva ed efficace, con in vista la rotta e il destino della storia spirituale della nave dell’umanità. A dire il vero, sono i “contemplativi” ad assumersi consciamente e volontariamente il peso della responsabilità per la rotta spirituale della nave e per il benessere spirituale sia dell’equipaggio che dei passeggeri.
“Contemplativo”, per questi ordini, significa sacrificio e responsabilità spirituale, mentre “contemplativo” nel senso di scegliere nell’essere umano il polo della contemplazione a spese del polo della volontà significa privilegiare il godimento offerto dalla contemplazione allo sforzo dell’azione (spirituale o verso l’esterno) che quest’ultima comporta. In realtà, si può incontrare un equo numero di persone che gode di un’esistenza contemplativa. Queste persone non appartengono quasi mai a ordini religiosi o ad ordini cosiddetti contemplativi, ma sono soprattutto laici amatoriali che fanno affidamento sulla loro propria autorità. Li si può incontrare tra chi si diletta nelle pratiche yogiche, tra i sedicenti cabalisti, tra i supposti Sufi e in generale tra i metafisici.
D’altro canto, ci si può orientare verso il polo della volontà e occuparsi solo di ciò che riguarda l’azione e le finalità pratiche. Si può certamente scegliere una vita attiva di un qualche tipo, ma a che prezzo! Il prezzo è inevitabilmente la ristrettezza mentale. “A che serve che mi preoccupi per gli eschimesi, con i quali non ho nulla a che fare, quando conosco a malapena le persone di dove vivo e i colleghi del mio ufficio?” – dice chi ha scelto l’azione a spese della conoscenza. Se è un credente, si chiederà: Qual è il beneficio di tutte queste vane occupazioni spirituali – filosofie, scienze, dottrine sociali e politiche – se i saggi precetti del Vangelo (o della Bibbia, del Corano, del Dhammapada [7], ecc.) sono sufficienti alla mia salvezza e a quella dell’umanità? L’azione richiede concentrazione e ciò inevitabilmente comporta la limitazione dello spirito alla sezione trasversale della vita e alla perdita di prospettiva della sua totalità.
Ora, la prudenza dettataci dall’Arcano de “L’Eremita” può anche fornirci la soluzione all’antinomia pratica “conoscenza-volontà”.
L’Eremita non è né immerso nella meditazione o nello studio né è coinvolto nel lavoro o nell’azione. Egli cammina. Vale a dire che manifesta un terzo stato oltre a quello della contemplazione e dell’azione. Rappresenta – in relazione al binario “conoscenza-volontà” o “contemplazione-azione” o, infine “testa-arti” – il termine di sintesi, vale a dire il cuore. Perché è nel cuore che la contemplazione e l’azione si uniscono, dove la conoscenza diviene volontà e dove la volontà diviene conoscenza. Il cuore non ha bisogno di dimenticare la contemplazione per agire, e non deve sopprimere l’azione peer contemplare. Il cuore è simultaneamente attivo e contemplativo, instancabilmente e incessabilmente. Esso cammina. Cammina giorno e notte, e noi ascoltiamo giorno e notte i passi del suo camminare incessante. Questo è il motivo per cui, se vogliamo rappresentare un uomo che vive secondo la legge del cuore, che è centrato nel cuore e che è un’espressione visibile del cuore – il “padre buono e saggio”, o l’Eremita – dobbiamo rappresentarlo mentre cammina, costantemente e senza troppa fretta.
L’Eremita della nona Carta è un uomo di cuore, un uomo solitario che cammina. Quindi è un uomo che ha realizzato in sé l’antinomia “conoscenza-volontà” o “contemplazione-azione”. Perché qui la soluzione è il cuore.

Il cuore che abbiamo in mente non è quello emotivo e passionale, come si intende generalmente il “cuore”. È il mediano dei sette centri della costituzione psichica e vitale dell’uomo. È il loto dai dodici petali o Anāhata nell’esoterismo indiano.
Questo centro è il più umano di tutti i centri dei “fiori di loto”. Perché il loto dagli otto petali o centro coronale è quello della rivelazione della saggezza [8], il loto a due petali è quello dell’iniziativa intellettuale, il loto a sedici petali (il centro della laringe) è quello della parola creativa, il loto a dieci petali è quello della scienza, il loto a sei petali è quello dell’armonia e della salute, e il loto a quattro petali è quello della forza creativa; quindi, il loto a dodici petali (il centro del cuore) è quello dell’amore.

Questo è il motivo per cui è il più umano di tutti i centri, ed è il criterio finale non di quello che l’essere umano possiede – ciò che può fare e ciò che non può fare – ma invece di quello che è. Perché l’essere umano è fondamentalmente ciò che il suo cuore è. È lì che si rivela e risiede l’umanità dell’essere umano. Il cuore è il sole del microcosmo.
Per tale ragione l’Ermetismo cristiano, in comune con la cristianità in generale – è “eliocentrico”, cioè attribuisce al cuore il luogo centrale in tutte le sue pratiche. La Grande Opera dell’alchimia spirituale o “Ermetismo etico” è la trasmutazione delle sostanze (“metalli”) o degli altri loti nella sostanza del cuore (“oro”) [9]. L’”Ermetismo etico” (un termine utilizzato in Russia per l’alchimia spirituale) mira alla trasformazione dell’intero sistema dei loti in un sistema di sette cuori, cioè a trasformare l’essere umano nella sua interezza in cuore. In pratica, ciò significa l’umanizzazione dell’intero essere umano e la trasformazione del sistema dei loti in un sistema che opera attraverso l’amore e per l’amore. Quindi la saggezza rivelata dal loto dai mille petali cesserà di essere astratta e trascendente: diventerà piena di calore, come il fuoco della Pentecoste. L’iniziativa intellettuale del loto a due petali diventerà “compassione-comprensione piena” del mondo. La parola creativa del loto a sedici petali diventerà magica: avrà la facoltà di illuminare, consolare e guarire.
Il cuore stesso, o loto a dodici petali, unico dei centri non attaccato all’organismo, che può uscirne e vivere – attraverso l’esteriorizzazione dei suoi “petali” che possono irraggiarsi all’esterno – diventerà un viaggiatore, un visitatore e compagno anonimo di coloro che sono imprigionati, in esilio, che portano un fardello carico di responsabilità [10] . Sarà un Eremita itinerante, che percorre le strade che portano da un capo all’altro della terra, ed anche attraverso le sfere del mondo spirituale – dal purgatorio sino ai piedi del Padre. Perché nessuna distanza è insormontabile per l’amore e nessuna porta può impedirgli di entrare – secondo la promessa di Gesù:
E io altresì ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’Ade non la potranno vincere.
— Matteo 16:8
È il cuore l’organo meraviglioso chiamato a servire l’amore nelle sue opere. È la struttura del cuore – allo stesso tempo umana e divina, una struttura d’amore – che per vie analogiche può aprire la nostra comprensione al significato delle seguenti parole del Maestro:
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente.
— Matteo 28:20

La scienza del loto a dieci petali diventerà allora coscienza, cioè il servitore di Dio e del prossimo.

Il loto a sei petali, il centro della salute, diventerà quello della santità, cioè armonia tra spirito, anima e corpo.

La forza creativa del loto a quattro petali sarà una fonte di energia e di slancio inesauribile per il lungo cammino dell’eremita itinerante, che è uomo di cuore, cioè un uomo che ha riguadagnato la sua umanità.
Il discepolo induista dello yoga e del tantra medita o recita interiormente i bija mantra, le sillabe-seme, allo scopo di risvegliare e promuovere lo sviluppo di questi centri o cakra.

Egli fa risuonare dentro di sé la sillaba OM per il centro tra le sopracciglia (il loto a due petali);

la sillaba HAM per il centro della laringe (il loto a sedici petali,
la sillaba RAM per il centro dell’ombelico (il loto a dieci petali), la sillaba VAM per il centro pelvico (il loto a sei petali) e la sillaba LAM per il centro alla base della spina dorsale (il loto a quattro petali).

In merito al centro coronale (il loto dai mille petali), non vi è per esso un bija mantra – essendo questo centro non il mezzo ma piuttosto il fine dello sviluppo yogico. È il centro della liberazione.
Ora, i mantra che seguono, o formule cristiane, sono quelle in relazione a questi centri:
Io sono la resurrezione e la vita | Loto dai mille petali |
Io sono la luce del mondo | Loto a due petali |
Io sono il buon pastore | Loto a sedici petali |
Io sono il pane della vita | Loto a dodici petali |
Io sono la porta | Loto a dieci petali |
Io sono la via, la verità e la vita | Loto a sei petali |
Io sono la vera vite | Loto a quattro petali |
Qui sta la differenza nella scelta del metodo: Si tratta, caro Amico Sconosciuto, di scegliere tra il metodo di far vibrare determinati suoni sillabici – Om, Ham, Yam, Ram, Vam e Lam – e il metodo che ha in vista la comunione spirituale con i sette raggi del “IO SONO” o i sette aspetti del SÉ perfetto, che è Gesù Cristo. Il primo metodo mira a risvegliare i centri così come sono; il secondo mira alla cristianizzazione di tutti i centri, cioè alla loro trasformazione in conformità ai loro prototipi umano-divini. Si tratta qui di realizzare le parole dell’apostolo Paolo:
Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie son passate: ecco, son diventate nuove.
— II Corinzi 5:17
L’opera di cristianizzazione dell’organizzazione umana, cioè la trasformazione dell’essere umano in un uomo di cuore, si compie nella vita interiore dell’uomo, essendo i fiori di loto solo il campo dove gli effetti di quest’opera puramente interiore si manifestano. Ora, il dominio dove questa trasformazione è immediatamente effettiva è quello delle tre paia di contrari (le “antinomie” pratiche) e delle tre “neutralizzazioni dei binari” – nove fattori in tutto – così come segue:
Quando parliamo dell’antinomia pratica “conoscenza-volontà” e della sua risoluzione – il “cuore” – si tratta solamente di una visione generale del lavoro di integrazione dell’essere umano. Nella pratica abbiamo a che fare con “volontà e cuore della conoscenza”, “conoscenza e volontà del cuore” e “conoscenza e cuore della volontà”, perché nel dominio del pensiero ci sono sentimento e volontà, nel dominio del sentimento pensiero e volontà, e nel dominio della volontà pensiero e sentimento. Ci sono quindi tre triangoli di “conoscenza-cuore-volontà” con i quali praticare il lavoro di integrazione dell’essere umano.
Ora, l’insegnamento nettamente pratico del nono Arcano consiste nel subordinare l’iniziativa intellettuale diretta, così come il flusso spontaneo del movimento mentale, al “cuore del pensiero”, cioè al sentimento profondo alla base del pensiero, talvolta designato come “intuizione intellettuale” e che è il “sentimento della verità”. È anche necessario subordinare sia l’immaginazione spontanea che l’immaginazione diretta attivamente alla direzione del cuore, cioè al sentimento profondo di calore morale talvolta designato come “intuizione morale”, che è il “sentimento della bellezza”. Infine, è necessario subordinare gli impulsi spontanei e i progetti diretti dalla volontà al sentimento profondo che li accompagna, talvolta designato come “intuizione pratica” e che è il “sentimento per il bene”.
L’Eremita della nona Carta è l’ermetista cristiano, che rappresenta il “lavoro interiore dei nove”, l’opera di realizzazione della supremazia del cuore nell’essere umano – in termini familiari e tradizionale l’”opera della salvezza” – perché la “salvezza dell’anima” è la restaurazione del regno del cuore.
[1] Evidentemente Tomberg fa riferimento a Mebes, che apparteneva alla branca russa dell’Ordine Martinista fondato da Papus e che prese spunto da quest’ultimo per elaborare il metodo della “neutralizzazione dei binari”, di cui tratta estesamente nella sua opera Tarot Majors nel capitolo dedicato al Mago.
[2] Friedrich Wilhelm Ostwald (1853 – 1932) fu un chimico e filosofo baltico tedesco; cofondatore del campo della chimica fisica, ricevette nel 1909 il premio Nobel per lo studio della catalisi. Nel 1906 pubblicò il già citato Die Farbenfibel, dove si occupò della sistematizzazione dei colori a scopo scientifico e artistico. Il suo studio divenne col tempo parte integrante del sistema di colori HSL (hue, saturation, lightness) e HSV (hue, saturation, value), entrambi alternativi all’RGB.
[3] Per comodità di rappresentazione i due coni sono visualizzati in proiezione polare
[4] La scuola peripatetica fu fondata da Aristotele nel 325 a. C.; i suoi membri conducevano studi scientifici e filosofici su quasi tutte le branche del sapere di quei tempi. Il termine peripatetico deriva dal greco περιπατητικός, dedito al camminare, dove leggenda vuole che il nome venne dall’abitudine di Aristotele di camminare durante i suoi insegnamenti.
[5] Lo Scetticismo filosofico (dal gr. σκέψις, indagine, inchiesta) stabilisce in senso ampio un’attitudine al dubbio verso la conoscenza così come comunemente accettata. Nel pensiero greco antico il Pirronismo, scuola fondata da Pirrone di Elide (c. 360 – c. 270 a. C.), imbeveva di scetticismo ogni strumento di conoscenza, considerato soggettivo, negando la possibilità di giungere a una realtà in sé ed esente da dubbi, limitandosi a non asserire nulla; si cercava così di giungere alla completa indifferenza, portatrice di un ideale etico supremo. Il successivo Scetticismo Accademico di Arcesilao (266 a. C.) ancora asseriva che la convinzione intellettuale non può essere considerata valida, nella misura in cui essa è in grado di generare convinzioni contradditorie. La sua formula “non conosciamo nulla, nemmeno la nostra ignoranza”, si traduce nel fatto che il saggio deve vivere secondo un’attitudine agnostica. Nei secoli e nelle culture, anche orientali, lo scetticismo è fiorito in varie scuole, caratterizzate da posizioni antimetafisiche e dal rifiuto dei dogmi e dei sistemi filosofici organizzati. Nella sua formula sull’indifferenza Tomberg non sembra riferirsi direttamente allo scetticismo, quanto a un modello di gestione che fa leva sulla prudenza, come egli specifica in seguito. Ovvero l’atteggiamento prudente esclude per necessità di occuparsi dei grandi insiemi di pensiero, per concentrarsi “matematicamente” sugli aspetti contingenti dell’esperienza, in una sorta di indifferenza utilitaristica.
[6] Originariamente il termine greco ἀναϑεμα significava “offerta alla divinità”, ma la sua forma verbale aveva il senso di “consacrare alle divinità infernali”. È questo il significato che, tramandato nell’ecclesiastica medievale, venne usato per indicare una maledizione, condanna o scomunica ufficiale nel caso ad esempio di eresia.
[7] Nella lingua pali il Dhammapada (sanscr. Dharmapada) fa riferimento a un sūtra che è considerato contenere gli insegnamenti originali del Buddha, così come da lui trasmessi.
[8] Tomberg si riferisce al cakra Sahasrāra (centro coronale) come al loto dagli otto petali. In realtà, come da etimologia della parola sanscrita, è il centro “dai mille petali”. Di qui in avanti il termine verrà sostituito nel testo.
[9] Per un approfondimento sui significati alchemici nella tradizione occidentale, vedi L’Opera Alchemica su questo sito.
[10] Premesso che l’opera di Tomberg è prevalentemente “cristocentrica”, propensa a privilegiare i richiami e le finalità del Vangelo nell’interpretazione dei simbolismi, non si può negare che esistano delle assonanze più o meno palesi con la tradizione di altre culture. In questo caso, la posizione centrale del cakra Anāhata giustifica il suo ruolo di coordinatore e distributore, considerando che l’organo ad esso associato sul piano materiale, il cuore fisico, attraverso i vasi sanguigni trasporta ossigeno e nutrienti alle cellule dell’organismo. È interessante notare che la divinità accostata alla regione centrale del cakra è Vaju (Colui che Soffia), il Signore dei Venti, conosciuto anche come Prāṇa (il Soffio): un ulteriore indizio del suo ruolo vitale e pervasivo, in sintonia con la funzione itinerante dell’Eremita.
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