Le alternative alla fine di un ciclo dell'umanità
Theofilias Schweighart – Collegium Fraternitatis – dal libro Speculum Sophicum Rhodostauricum, 1604

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Cosa si intende per esoterismo? Prima di introdurre il nostro lavoro è necessario porsi questa domanda. Troppo spesso si fraintendono il valore e la portata del pensiero esoterico, che dai più viene recepito come un retaggio oscuro e superstizioso dei tempi precedenti la rivoluzione scientifica, oppure alla stregua di un non meglio identificato amalgama di conoscenze magiche occultate dal segreto iniziatico.

Indubbiamente la distinzione tra esoterismo – secondo l’etimo della parola l’insegnamento interiore, nascosto – ed essoterismo, la dottrina destinata ad un più ampio pubblico, ha contribuito col tempo a generare un’idea distorta sull’argomento. In realtà, questa separazione risponde a una precisa necessità: la conoscenza della realtà celata dietro il velo delle apparenze richiede lo sviluppo di una percezione sottile che non necessita, se non nelle fasi preparatorie, dell’intermediazione cerebrale o dialettica. Quindi, la selezione non avviene per volontà di una gestione elitaria della verità da parte di alcuni, ma per il semplice fatto che l’abitudine esclusiva al pensare basato sui fatti preclude automaticamente al sapere intuitivo, vero fondamento del percorso iniziatico.

Vi sono dei casi in cui il segreto è stato mantenuto di proposito, vedi i rituali o le pratiche di alto grado di alcune scuole iniziatiche; ma se ciò accade, è per un tentativo di non svilire gli insegnamenti, di evitare una banalizzazione di parole o atti che acquisiscono il loro vero significato solo se utilizzati da chi abbia un certo grado di conoscenza. Vero è che a volte l’occultamento mira ad evitare utilizzi impropri e malevoli di certe tecniche da parte di chi, pur avendo conseguito un apprendistato, decide di deviare dalla retta via per sfruttare le sue conoscenze a fini egoistici.


La finalità del pensiero esoterico e di tutti i percorsi iniziatici, sempre che questi rispondano a un criterio di validità dato dall’appartenere a una tradizione, consiste nel creare le condizioni adatte al superamento della separazione tra l’individuo e la sua visione oggettiva. Che si utilizzi una via mistica – umida – basata sull’accettazione interiore di una fede che “scuote le montagne”, o di un percorso diretto – la via secca alchemica – che brucia le impurità dell’anima con uno sforzo volitivo, poco importa; si tratta di scelte dettate da un’interna predisposizione, ed entrambe le alternative alla fine si congiungono. Ciò che conta è il riconoscimento del ruolo che la coscienza, in quanto principio agente, gioca non solo nell’interpretazione della realtà, ma nella sua stessa creazione.

Quando cerchiamo di interrogarci sul significato dell’essere coscienti ci separiamo da ciò che percepiamo, che diviene altro da noi; in questo modo diventiamo consapevoli di qualcosa, e possiamo costruire una relazione verso l’esterno basata su scambi mentali e intellettuali, interazioni fisiche e reazioni emotive dettate dalle nostre risposte agli stimoli esteriori. Il senso della coscienza convenzionale è proprio in questo specchiarsi che produce una realtà duale: nel momento in cui è stabilito un fenomeno, automaticamente vi si contrappone un osservatore, che razionalizza e legge l’apparire attraverso lo strumento cerebrale, in un processo riflesso che rimanda al simbolismo lunare.

Tutto questo ha un senso, perché ci consente di orientarci in un mondo altrimenti caotico e privo di significato, mirando a sviluppare forme di cooperazione che sono a fondamento della civiltà umana. Ma ha anche un prezzo, che è quello di escludere dall’evoluzione il ruolo fondamentale dell’individuo nel riconoscimento autentico della sua visione. Negli insegnamenti ermetici e mistici si cita la via del cuore come percorso di riavvicinamento a una realtà non-duale, a una condizione di intima unione con la natura – intesa come mondo fenomenico – che diventa così l’espressione del nostro vero sé, non separata dal percipiente. Il cuore fisico è naturalmente un simbolo, il luogo centrale e centralizzante che unifica gli opposti, o l’intervallo tra sistole e diastole, il momento in cui la manifestazione tace, rimanendo nel suo stato potenziale.

Qualunque insegnamento esoterico espressione di una tradizione genuina persegue questa finalità: rendere l’essere umano partecipe della sua visione, porlo al centro del processo creativo da cui scaturisce una realtà che indebolisce l’illusione separativa. Questo non significa cancellare l’esperienza quotidiana, o condurre uno stile di vita ritirato e lontano dalle tentazioni mondane per perseguire una ricerca spirituale; se questo era possibile in passato, e lo è ancora in alcuni rari casi, gli impegni che abbiamo assunto in quanto partecipi di un tessuto sociale alquanto elaborato rendono improponibile l’abbandono delle responsabilità personali, familiari e collettive. Un tale atteggiamento risulterebbe anzi egoistico, in aperto contrasto con l’ideale di fraternità universale espresso da tali conoscenze. Vero è che i momenti di studio, di pratica, di meditazione, richiedono un certo grado di raccoglimento; ma è tempo impiegato per migliorare se stessi e, di riflesso, i propri rapporti mondani.


Un fraintendimento piuttosto comune è accomunato al termine “tradizione” utilizzato in riferimento alle dottrine esoteriche. Tale parola evoca un sapere che viene indissolubilmente legato a una patina di “antichità” detentrice di conoscenze che oggi sono o perdute, oppure appannaggio di circoli e convivi che fanno uso di simboli, riti e formule di cui conservano gelosamente il significato e l’operatività. Il latino traditio, da cui deriva il termine, ha il significato di “trasmissione”. Ora, la trasmissione di una conoscenza, per essere realmente efficace, non tramanda la forma, ma il senso e l’essenza del sapere iniziatico, che rivestono una parvenza adattata al tempo e alle circostanze mondane che la devono manifestare. Le antiche simbologie hanno certamente un significato; ma quando se ne comprende la sostanza – e non ci si ferma alla figura – se ne può applicare il valore anche alle esperienze della vita quotidiana, che così divengono occasione di meditazione e di approfondimento interiore.

Vorremmo ancora far luce su un equivoco connesso alle idee di “unità” e “molteplicità”. Si pensa ai due concetti come entità distinte, per cui la ricerca di una sintesi interiore tra l’individuo e il mondo pare escludere o pregiudicare la ricchezza delle manifestazioni di cui facciamo esperienza nella vita ordinaria. È la stessa ambiguità presente nella separazione tra spirito e materia, tra saṃsāra e nirvāṇa. Consideriamo l’unità o lo spirito come un’astrazione, mentre la molteplicità delle forme materiali è un mondo a parte, da cui ci dovremmo emancipare per raggiungere le vette della spiritualità. Ma non esistono spirito o materia, unità o molteplicità. Sono due aspetti o percezioni di un’unica realtà, vissuta come separata per il vincolo imposto dalla nostra coscienza riflessa e distintiva; questo ci suggerisce che dovremmo aver rispetto per tutte le diversità, ma non imporre la diversità come modello di riferimento. Si pensi al Deus sive Natura di Spinoza, alla Natura che non può essere concepita senza Dio; o alla Shekinah della speculazione cabalistica, la presenza immanente di Dio nel mondo. In ultimo, si mediti questa frase densa di significato che è attribuita a Proclo, filosofo greco considerato il successore di Platone: “Il cielo è in terra, ma in modo terrestre, e la terra è in cielo, ma in modo celeste”.


Il decadere di una percezione anche spirituale dell’esistenza non è certo un fenomeno recente; ma possiamo affermare che mai come oggi assistiamo al rapido degenerare non solo della visione interiore, ma pure delle fondamenta sociali e materiali su cui sono edificate le nostre certezze. Se il nostro sviluppo sul piano fisico non è animato da un dettato etico che solo può venire dalla conoscenza delle leggi che governano il mondo spirituale, il tutto si risolve in un finto progresso guidato dagli istinti più bassi e caotici, che ne siamo consapevoli o meno. I recenti sviluppi di cui siamo testimoni in occidente ne sono purtroppo una prova. Invece di far leva su un accrescimento della responsabilità personale e delle facoltà discriminanti, si impone un modello di pensiero basato sul nulla, su frasi standardizzate e continuamente contraddicentesi che solleticano gli stati emotivi più volatili, più facilmente influenzabili. In questo modo si riesce a imporre facilmente la direzione voluta senza che l’individuo abbia il minimo sentore dell’inganno a cui è soggetto. E non va meglio neppure sul fronte degli insegnamenti iniziatici, dove la trappola del materialismo spirituale – l’utilizzo delle pratiche spirituali per rafforzare gli istinti egoistici –  è sempre in agguato. Siamo insomma alle soglie della periferia del tempo, il tempo lineare che propone l’utopia di un progresso indefinito che fa da sostituto, nelle menti ormai spoglie di luce interiore, al vuoto esistenziale.

Nel 1928 venne data alle stampe un’opera di René Guénon, La Crise du Monde Moderne, uno dei primi tentativi di vagliare i rapporti tra esoterismo e civiltà occidentale in vista di un risveglio tradizionale che facesse da contrappasso alla degenerazione dell’occidente stesso. Guénon identificava tre potenziali centri portanti, a suo vedere gli unici che ancora possedessero un’impronta tradizionale in grado di ispirare un risveglio spirituale. Il primo di questi per rilevanza ha come riferimento le dottrine induiste, in particolare il Vedānta (questo prima che aderisse al sufismo islamico). Nel mondo occidentale egli considerava la Chiesa cattolica come pressoché unica detentrice del simbolismo tradizionale, se pure celato da riti il cui vero senso era ormai occultato; e ancora, la massoneria, anche se il suo stato di allontanamento dai principi fondanti gli faceva sperare ben poco. Ciò che allora auspicava Guénon era l’istituzione di quella che egli definiva una élite intellettuale – dove l’intelletto è inteso come conoscenza dei dogmi universali – in grado di traghettare l’umanità ad un ciclo successivo, preservandone i valori tradizionali. Guénon era anche consapevole che il regresso che l’umanità stava subendo era ineluttabile se considerato nella prospettiva ben più ampia dei cicli cosmici; ma il suo fine non era di evitare l’inevitabile, quanto di trasformare il passaggio in qualcosa di non totalmente distruttivo, considerando le premesse.

Anche Julius Evola pubblicò alcune opere sui rapporti tra il pensiero esoterico e i suoi risvolti applicativi. In  Rivolta contro il Mondo Moderno del 1934 egli traccia un affresco dell’evoluzione umana alla luce delle quattro ere cosmiche. Nel 1953 dà alle stampe Gli Uomini e le Rovine, un atto d’accusa all’egualitarismo democratico che spoglia l’individuo della sua dignità naturale. È del 1961 Cavalcare la Tigre, una guida allo sviluppo del sé in un mondo i cui veri valori sono andati perduti. Guénon ed Evola, per quanto appaiati da un comune sentire, non condivisero l’apparente divario tra azione e contemplazione. Per Guénon, in una società tradizionale la classe sacerdotale doveva mantenere il primato nella trasmissione dei principi universali, in quanto rappresentativa delle leggi immutabili che governano il mondo manifesto, il motore immobile al centro del movimento. Evola riteneva che in seno alla civiltà occidentale l’azione costituisse il mezzo privilegiato per scuotere le masse dalla loro sottomissione; per lui si trattava di riproporre in chiave sociale la sempiterna lotta tra gli dèi olimpici e le forze devianti titaniche e telluriche, capaci di trascinare l’umanità nell’asservimento alla materia priva di spirito. Come abbiamo già avuto modo di osservare, tale contraddizione è più apparente che reale, anche rimanendo nel campo delle dottrine induiste tanto care a Guénon. La scuola del Sāṁhkya, per dare un esempio, propone un’apparente dicotomia tra Puruṣa, l’elemento trascendente privo di attribuzioni, e Prakṛti, la natura in quanto sostanza da cui derivano le varie differenziazioni. O ancora vediamo questo contrasto fittizio nello shivaismo con Śiva e Śakti, il dio e la sua stessa potenza. In questi e in altri casi, come per l’azione e la contemplazione, si tratta non di opposizioni, bensì di aspetti, su piani diversi, di un’unica realtà. La differenza può esistere solo su un piano di esperienza relativa; in tal caso, le circostanze particolari dettate dall’epoca e dalla cultura possono suggerire un modus operandi che propende più verso il centro (contemplazione –  Puruṣa –  Śiva)  o verso le manifestazioni periferiche di questo stesso centro (azione – PrakṛtiŚakti).


Quest’ultima considerazione ci porta direttamente all’argomento principale della nostra conversazione, ovvero alle possibili interazioni tra il pensiero esoterico e la civiltà “profana” o, recuperando l’etimologia del termine, a ciò che sta fuori del luogo sacro. Non vi è bisogno di essere profetici per cogliere quei segni che, a livello d’insieme, indicano una repentina accelerazione verso uno stato caotico delle coscienze e, di riflesso, della stessa esperienza naturale. Il pensiero scientifico, per quanto valido strumento nell’osservazione della realtà, si frantuma in una miriade di branche ciascuna delle quali rivendica la sua autonomia, ponendosi così al di fuori di una visione organica e globale. Il tessuto sociale è tenuto assieme da una specie di “conformismo democratico” che seleziona quei comportamenti utili a indurre il sopirsi del pensiero discriminante. La cultura dell’emergenza genera uno stato di allerta permanente che depotenzia qualunque atto che non sia conforme alle esigenze del momento. La natura non è trasformata ma “sfruttata”, privata letteralmente dei frutti e quindi della possibilità di auto-rigenerarsi. Il modello consumistico porta alla creazione di centri di potere economico-finanziari che di fatto diventano il nuovo sacro, il sole di una realtà completamente asservita al profitto. Qualcuno potrebbe obiettare che questi approcci sono appannaggio del cosiddetto occidente. Forse un tempo era così, ma oggi il termine “occidentale” ha perso ogni connotazione geografica per diventare un modello di pensiero, prevalente anche presso le culture che Guénon definiva “genuinamente tradizionali”.

Esaminiamo ora i potenziali di reazione di fronte a un tale stato di cose. La creazione di una “élite”, una o più entità che si occupano di trasmettere i valori universali al contesto sociale, appare alquanto problematica; l’attuale stato dell’umanità è situato all’estrema periferia dello spirito, e mancano le strutture intermedie necessarie per trasmettere a cascata, nei vari settori dello sviluppo umano, l’insegnamento della philosophia perennis. Non si può negare che esistano in tutto il mondo dei centri di conoscenza – palesi o occulti – che preservano l’antica saggezza secondo le forme legate alle diverse culture; e nemmeno mettiamo in dubbio che questi centri favoriscano un innalzamento delle coscienze. Ma tutto questo non è sufficiente per raggiungere la massa critica necessaria a innescare una trasformazione; le forze avverse hanno a sostegno la forza della “concretezza”, di ciò che non richiede impegno o rinuncia per essere visto e desiderato; il rischio di ricadute è sempre presente, come il sentirsi santi per un giorno e poi ripiombare nella vana realtà quotidiana. Senza contare il pericolo di essere fuorviati dai falsi insegnamenti, da autorità che si proclamano tali solo per glorificare ed espandere il proprio ego, quando non il tornaconto personale.

Sul versante complementare dell’azione le cose non vanno meglio. Allo stato presente delle cose, l’azione propugnata da Evola non sarebbe per nulla ispirata da ideali olimpici, mancando alla base di quell’ispirazione dall’alto che sola garantirebbe la spinta propulsiva; negli ultimi anni della sua vita lo stesso Evola, come scrive nella sua opera autobiografica Il Cammino del Cinabro, nutriva scarse speranze al proposito. Il fatto è che la conduzione politica dei governi, anziché essere al servizio di un bene superiore, è in larga maggioranza autoreferenziale, disponibile ai cambiamenti nella misura in cui questi rafforzano lo status quo. Tale atteggiamento è per certi versi naturale e difficilmente scalfibile, perché qualunque organismo, sia biologico che sociale, mira alla sopravvivenza. Esiste però una terza via; ma prima di introdurla, è necessaria una breve digressione sulle scuole esoteriche e sul loro apparato simbolico.


Intraprendere il cammino iniziatico significa prima o poi imbattersi in qualche forma di insegnamento o di istituzione che affonda le sue radici in un passato più o meno remoto; fin qui nulla di male. I problemi sopraggiungono quando riteniamo che la bontà dei rituali e dei simbolismi dipenda dalla loro “antichità”, dall’essere figli di un tempo in cui l’umanità era ancora impregnata di pensiero magico. Il fatto è che un simbolo, in qualunque forma si presenti, è universale, e questo include anche la dimensione temporale. Conoscere un simbolo significa enuclearlo dal suo rivestimento per applicarlo a tutto ciò che vi si connette in modo analogico; solo così esso diviene “vivente”, in grado cioè di operare una trasformazione interiore. In caso contrario, l’oggetto simbolico rimane lettera morta, e nessun rito o sorgente esterna potrà metterlo in moto.

L’apprendistato iniziatico condotto secondo gli antichi insegnamenti è utile nella misura in cui, una volta compresi i significati e averli praticati, ci liberiamo delle sovrastrutture e andiamo alla ricerca delle modalità espressive che sono ad essi collegati. È questo l’approccio iniziale alla terza via; attraverso il processo di decrittazione simbolica della realtà, la discontinuità della nostra esperienza personale cede il passo a una visuale molto più ampia, al senso della nostra esistenza individuale, che potrà farci da guida nel proseguimento del cammino.

Coscienti a questo punto dell’ineluttabilità di un ciclo di cambiamento nei destini dell’umanità, dovremmo porci il problema di come una somma di atteggiamenti individuali consapevoli possa contribuire ad alleviare i rischi di un mutamento a dir poco problematico. Come abbiamo avuto modo di esaminare, sia l’approccio elitario che quello basato su una spinta ad agire attivamente offrirebbero scarsi risultati date le circostanze attuali. Se però si riuscisse, attraverso un’opera di vera e propria alchimia sociale, ad assegnare alle varie categorie dell’esperienza e dello scibile umano un significato anche universale, il potenziale distruttivo diverrebbe una risorsa di trasformazione. Allora, non vi sarebbe necessità di un finale più o meno cruento, ma si assisterebbe a una transizione ancora problematica ma sostenuta dalla cognizione di operare seguendo un dettato spirituale, libero dalle sovrastrutture create dalla mente dialettica.

Un simile intervento è complesso, e certamente non di breve durata, poiché coinvolge la miriade di particolarità sulle quali è strutturata la nostra civiltà. Nel 1917 Rudolf Steiner, il fondatore del movimento antroposofico, propose un meccanismo di triarticolazione, o tripartizione sociale, dove in luogo di una gestione statale centralizzata esponeva una suddivisione in sistemi relativamente autonomi ciascuno dei quali era inerente rispettivamente alla sfera economica, giuridica e culturale. Questa divisione mirava a realizzare gli ideali della Rivoluzione Francese: la libertà per la sfera culturale, l’uguaglianza per quella giuridica e la fraternità per la sfera economica. Il dominio economico si incaricava di gestire i rapporti con gli elementi della natura al fine di trasformarli in beni per un equo sostentamento dell’organismo sociale. Il dominio giuridico regolava il diritto pubblico e politico alla ricerca dell’equilibrio nei rapporti umani. Infine, il dominio culturale mirava a integrare le doti individuali nel più vasto organismo sociale attraverso il libero studio e le aspirazioni spirituali. Steiner tentò a più riprese di ampliare la platea dei soggetti potenzialmente interessati alla tripartizione, proponendo dei memoriali ai governi tedesco e austroungarico, ma senza risultati. A tutt’oggi vi sono delle piccole realtà locali e aziendali che applicano lo schema tripartito.

Cosa ci dimostra questo insuccesso? Che il mutamento non può avvenire attraverso il cambio di un modello strutturale, se pure avanzato; la paura di perdere il sostegno di una struttura sociale vicaria ma tuttavia solida, almeno all’apparenza, rende refrattari a un cambio di regime.   L’unica soluzione pare essere il coinvolgimento di un certo numero di personalità che hanno raggiunto un certo grado di comprensione spirituale della realtà. Gli individui così realizzati sono in grado di cogliere l’aspetto essenziale o anagogico, dal sensibile all’intelligibile, dei vari aspetti dell’insieme sociale, delle scienze e delle arti, dando inizio ad un processo di osmosi che ridona l’essenza, l’oro dei filosofi ermetici, anche alle esperienze quotidiane condizionate dalla materia.

Diversamente dalla via sacerdotale o della contemplazione, il fine di questo percorso non è solo quello di preservare le conoscenze tradizionali ma anche di diffonderle. E diversamente dalla via dell’azione priva del sostegno della comprensione spirituale, qui si vuole completare l’individuo così che sia in grado di effondere la luce unificante dell’essenza nelle esperienze mondane che il destino gli prepara. Non si tratta di tentare un’improponibile influenza su strutture politico-sociali troppo calcificate per essere scalfibili; piuttosto è un tentativo in parallelo di trasmutare alchemicamente la propria sfera di esperienza e di creare un’osmosi, una reciproca condivisione con le esperienze di altri praticanti, al fine di elevare il livello vibrazionale del piano materiale. Così, con un lavoro diffusivo, si può contribuire al miglioramento dell’umanità e alla finalità propria di ogni opera genuinamente universale: riunire ciò che è sparso.

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