Mercurio è il dio messaggero, è il principio di intermediazione che rende intelligibile la pura presenza solare attraverso le funzioni mentali

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Mercurio svolge l’attività di mediazione tra la presenza del sé, simboleggiata dal Sole, e le mutue interrelazioni che si svolgono con l’ambiente per il tramite del mentale, articolando la pura essenza solare in un sistema conoscibile, comunicabile, atto a esprimersi in un complesso di riferimenti che offra un’interpretazione alla manifestazione del sé nel mondo.

Il mito e la sua esegesi

Nella sua veste mitologica il pianeta è associato al dio Mercurio romano, l’Hermes greco da cui Mercurio trae gran parte dei suoi tratti. Hermes nacque dall’unione di Zeus con Maia, una delle sette Pleiadi; appena nato, con il guscio di una tartaruga uccisa, inventò la lira; e subito dopo rubò una mandria di bovini sottraendola al fratello Apollo. Accusato dal fratello, lo ammansì con il suono della lira convincendolo a barattare con essa la mandria rubata. In seguito ricevette ancora da Apollo il bastone da pastore e l’insegnamento sulla divinazione con il volo degli uccelli in cambio di un flauto di Pan e di una fisarmonica a bocca. Da allora Hermes divenne il protettore dei musici e dei mandriani. Tra i suoi ruoli molteplici ricordiamo ancora quello di ψυχοπομπóς (psicopompo), il conduttore di anime che indicava ai defunti la via dell’Ade; di πολύτροπος (politropo), il viaggiatore astuto dalle molte risorse, ladro, predone, portatore di sogni; di ἄγγελος (angelo), il messaggero e l’interprete degli dèi.

In tutte queste caratterizzazioni vediamo comparire il principio del trasferimento, dello scambio, del transito, del movimento e del mutamento. Vi è un continuo rivestirsi di molteplici ruoli, che se pure appaiono tra loro privi di un tratto comune e a volte apparentemente a-morali, rivelano la nativa libertà di associazione della mente. Essa, in quanto strumento di conoscenza della realtà attraverso la percezione dualistica, si esprime nel mito in una figurazione simbolica – l’appropriazione indebita della mandria dei pensieri divini del fratello Apollo; ma nel suo senso più profondo questo furto è il passaggio dall’uno al composito, il depredare un unico proprietario – Apollo, detentore della coscienza numinosa – per dare inizio alla caduta del pensiero divino nel molteplice. La punizione per questo furto viene poi bilanciata, grazie all’intermediazione di Zeus, con il dono di una lira a sette corde, il cui suono estasia Apollo. Qui vediamo all’opera una compensazione di ritorno: l’armonia generata dal suono è un richiamo aperto alla concordanza con le sfere superne (i sette pianeti classici), a sigillo della ierogamia tra cielo e terra.

Nel suo ruolo di psicopompo e di angelo Mercurio esercita la sua funzione di intermediazione tra il divino e il terreno; non solo egli governa il rapporto di intelligere all’interno degli elementi della percezione oggettiva (la parola, le lettere), ma anche mantiene il suo essere dio nel rapporto con la fonte, con il significato primordiale che sta dietro al mondo delle molteplici apparenze. Si potrebbe anche pensare che il ladro Mercurio sia tale solo per noi, perché in realtà non ruba nulla, in quanto nulla è realmente diviso; egli si limita a svelare una realtà non frazionata, e a ri-velarla così da renderla all’apparenza nuovamente separata dalla sua scaturigine. È solo a questo punto, entrati nel mondo del giudizio, che egli diviene il re del furto, in quanto il ladro è l’immagine di colui che separa gli individui dai loro possessi, allo stesso modo in cui Mercurio ruba la conoscenza del pensiero divino.

Le filosofie della mente

Ma ora vediamo come il principio mentale venne colto dalle interpretazioni filosofiche che si susseguirono nei secoli. L’intelletto, strumento secondo la filosofia greca dell’intendere o intelligere, viene a stabilirsi con Platone e Aristotele nella sua duplice veste di νόησις (noesis) e διάνοιά (dianoia), la percezione del reale tramite l’autocoscienza di origine divina e la conoscenza discorsiva, che dalla prima trae le sue basi. Successivamente, da Aristotele sino ai commentatori arabi e alla scolastica, si delinea la distinzione tra intelletto in potenza e intelletto agente; il primo riceve gli intelligibili e viene inteso variamente come un’intelligenza separata o identificato con Dio; il secondo rende comprensibili le forme o le idee presenti nelle immagini che si manifestano ai sensi.

Nella filosofia moderna dei sec. XVII e XVIII si confrontano gli estremi del razionalismo cartesiano, che vede l’intelletto come serbatoio delle idee innate (res cogitans) da cui muoversi per spiegare le cose esterne (res extensa), e dell’empirismo di Locke secondo cui si nasce come “tabula rasa” e si giunge a conoscenza solo per mezzo dei gradi dell’esperienza sensibile; in questo quadro Leibniz si pone, con qualche distinguo, più dalla parte del pensiero cartesiano, proponendo la preesistenza di un potenziale o di attitudine alla conoscenza che, stimolato dalla percezione sensibile, è all’origine delle idee. Per Kant l’intelletto è il “legislatore della natura”, una facoltà spontanea e attiva che si impone a priori all’esperienza, mentre la ragione assume il ruolo della noesis platonica, come produttrice di idee che guidano l’intelletto al momento conoscitivo; sostanzialmente in Kant si opera una distinzione tra il fenomeno che è oggetto della nostra esperienza e la ‘cosa in sé’, indipendente da esso.

Il pensiero idealista, inteso nel senso attuale, trae le sue basi proprio da Kant nel concetto di logica trascendentale, il modo di indagare non sull’oggetto ma sul nostro modo di conoscerlo, pur restando oggettiva la materia del conoscere. Ma già nei postkantiani Fichte, Schelling e Hegel, a cavallo tra il XVIII e XIX sec., la realtà guarda alla sfera ideale del pensiero, per giungere sino all’idealismo assoluto, il reale ricondotto al puro pensiero, dove gli oggetti considerati ‘esterni’ non esistono se non come rappresentazione della coscienza. Tutte queste forme di idealismo conducono al tentativo di affermare una visione unitaria della realtà, in contrapposizione alla tendenza empiristica di considerare la preminenza del ‘dato’. Le vette del pensiero idealistico moderno si toccano forse con l’attualismo di Gentile, in cui il reale si identifica con l’autocoscienza dell’atto del pensiero che pensa, dove tra gli enti pensati e l’attività pensante corre un unico filo che è lo Spirito-Pensiero, un’attività perenne che pone fine ad ogni distinzione tra soggetto e oggetto (monismo). La differenza sostanziale rispetto al pensiero di Hegel e il suo idealismo assoluto sta nella concettualizzazione dei “pensati”, che risultano per Hegel un evento definitivo situato al culmine dello sviluppo spirituale come altro dallo Spirito, anziché essere concause di un eterno divenire dell’atto pensante.

Il dettato di Steiner, fondatore dell’antroposofia, si delinea in un monismo come espresso nella sua opera Die Philosophie der Freiheit [1]. In essa la concezione unitaria del mondo viene spiegata attraverso la relazione tra concetto e percezione, ovvero come unione tra l’osservazione pensante e la molteplicità del percepito. La percezione è la parte di realtà che viene data oggettivamente, il concetto è lo sviluppo soggettivo di tale realtà; il pensare rappresenta il legame concettuale che ridona coerenza alla frammentarietà delle percezioni, che senza di esso permarrebbero nel loro stato di separazione nello scenario spaziotemporale in cui si presentano. Ma cosa è il pensiero per Steiner? Esso viene identificato con l’intuizione, la potenzialità di conoscere il mondo dell’esperienza non come processo duale ma come realtà unitaria, nel fondersi di concetto e percezione. In sostanza il mondo della percezione rappresenta metà della realtà, la quale viene completata – per il tramite del pensare – dall’apposizione concettuale, che altro non è che la rivelazione dei nessi naturali e ideali tra le cose secondo l’organizzazione percettiva di un determinato essere; in questo modo il soggetto e l’oggetto della percezione si riuniscono in una realtà unitaria.

Nei primi sistemi filosofico-religiosi indiani, possiamo notare che ad un primo accento posto sulla realtà assoluta, l’Atman o Brahman delle Upaniṣad fa seguito, nella scuola Sāṁhkya, l’affermazione della diade PuruṣaPrākṛti, il Soggetto supremo e il suo riflesso nel mondo degli oggetti materiali. Da questo riflesso divenuto consapevole di se stesso appare il ‘produttore dell’io’ (ahaṃkāra), che si individua e produce la mente e gli organi di senso, così come gli organi motori e le essenze delle cose che sono percepite e manipolate. In sostanza prākṛti è equiparato al non-Sé; quando le fluttuazioni della mente (buddhi nell’accezione Sāṁhkya) cessano, viene a mancare l’identificazione erronea del puruṣa con la prākṛti e si comprende l’indipendenza del puruṣa. Lo strumento per la soppressione delle modificazioni della mente è lo yoga, o autodisciplina; con esso il praticante diviene fondato sulla sua natura essenziale e fondamentale.

Le dottrine del Nyāya e del Vaiśeshika sono centrate sulla natura della nostra conoscenza della realtà e sull’enumerazione degli oggetti della conoscenza stessa. La mente è data per inferenza in quanto rappresenta ciò che dirige i sensi e ne coordina i contatti con l’esperienza; è considerata come la sostanza per il cui tramite i contatti sensori si ritrovano sperimentati interiormente come qualità. In tale contesto il Sé è la sostanza che, in quanto soggetto, sperimenta tutte le diverse qualità delle esperienze interiori ma è distinto da tutte le altre sostanze e qualità, compresa la coscienza, in quanto esso funge da base per gli oggetti, che necessitano di un soggetto per essere esperiti. Per il Nyāya la liberazione è libertà anche dalla coscienza, perché essa è vista come coscienza di qualcosa, e questo presuppone una dualità tra soggetto e oggetto. Poiché la coscienza è una caratteristica del sé, il sé non viene distrutto quando si elimina la coscienza. Nello stato di liberazione, tutto ciò che può essere detto sul sé è che esso esiste semplicemente come sé.

Nel buddhismo delle origini il concetto che fa riferimento alla mente va interpretato nel più ampio contesto dell’esistenza come un processo in continuo divenire piuttosto che come una serie causale di realtà indipendenti o semi-dipendenti. Il simbolo della ruota del divenire (bhavacakra) rappresenta gli aspetti più significativi dei processi continui di ciò che comunemente chiamiamo una persona; in essa, la mente e il corpo (nama-rūpa) dipendono per il loro funzionamento dalla coscienza, ma sono a loro volta parte del processo da cui vengono a dipendere gli organi di senso, che a loro volta generano le impressioni sensoriali, la percezione, e da lì il desiderio o l’avversione verso il percepito, ecc. Più schematicamente l’analisi della persona, cioè dei processi che la compongono, può essere rappresentata dai cosiddetti cinque skandha: forma (rūpa), sensazione (vedana), percezione (sanna), volizione (sankhāra) e coscienza (vijñāna), gli ultimi quattro dei quali sono processi mentali (nama). La dottrina buddhista dell’anatta (o anatman in sanscrito) attesta che su questi cinque skandha si afferma la concezione di un sé come esistente indipendentemente dai processi stessi, mentre in realtà sono i processi che generano l’illusione di un falso ego-sé, che lottando per affermare la sua esistenza vicaria genera l’ignoranza della sua realtà e di conseguenza l’attaccamento e la sofferenza.

Nella dottrina Yogācāra, espressione dell’idealismo buddhista, tutta la realtà è considerata soltanto mentale, o soltanto coscienza, espressione della coscienza seminale (ālayavijñāna). Cosa sia questa coscienza seminale non può essere detto, ma le sue manifestazioni relative appaiono come percezioni dei sensi, attività mentali e come autocoscienza di base, il che rende possibile l’eresia di un sé. L’ālayavijñāna non implica il disconoscimento del principio dell’origine da cause o originazione dipendente come espresso dal Buddha (paticcasamuppada), perché esso è perfettamente valido sul piano della realtà relativa.

La dottrina Mādhyamika, o Via di Mezzo, non propone una propria definizione di realtà, bensì mira a dimostrare la completa relatività di tutti i costrutti mentali mediante un’analisi serrata delle loro contraddizioni, attraverso la comprensione di quella che viene detta śūnyatā, vacuità o assenza di esistenza inerente.

Riassumendo, i Vaibhāṣika e i Sautrāntikā insegnano che la realtà ha la natura di un processo in perenne divenire, in cui solo gli elementi atomici sono primari ed esistono di per sé, non causati e immutabili (svabhāva). Gli Yogācāra sostengono l’esistenza della sola mente, mentre la realtà esterna è irreale, priva di svabhāva. Per il Mādhyamika sia i realisti che gli idealisti compiono il medesimo errore, cioè non imboccano il sentiero mediano tra l’essere e il non-essere, il che non consente di sfuggire agli errori rispettivamente dell’eternalismo e del nichilismo. Il Mādhyamika crede nell’esistenza di una realtà assoluta, ma non crede che essa possa essere afferrata concettualmente, bensì solo per il tramite dell’esperienza diretta. In altri termini la maggior parte delle persone si muove in un mondo costruito dalla mente. Non c’è dubbio che si venga in contatto con una realtà che esiste, e che fornisce la base per la costruzione dell’insieme di entità e relazioni determinate. Ma questa realtà non viene vista per ciò che realmente è, ed è confusa con l’insieme dei nomi e delle forme che caratterizzano il mondo costruito dalla mente stessa.

La comprensione dei presupposti sui quali si fonda l’esame della mente nel buddhismo tibetano richiede un chiarimento sul significato del concetto. Il concetto è un termine al quale è stato assegnato un significato o perché è stato associato con un certo dato o insieme di dati, oppure perché è stato proposto per esso un significato a livello teorico mediante i postulati di una teoria specifica e formulata deduttivamente. Il primo procedimento conduce a ‘concetti dati per intuizione’, il secondo a ‘concetti dati per postulazione’. Nella filosofia occidentale tradizionale e nella psicologia teorica la ‘mente’ è stata un postulato o, più precisamente, un universale, prescindendo dal fatto che sia stata concepita (1) come il sé o il soggetto che percepisce, ricorda, immagina, sente, ragiona, compie atti di volizione, ecc., e che è funzionalmente connessa a un organismo corporeo individuale, oppure (2) come una sostanza metafisica che pervade tutte le menti individuali e ha il suo corrispettivo nella sostanza materiale (la mente intesa come epifenomeno [2]).

Nei sistemi dottrinali del buddhismo tibetano le varie scuole adottano terminologie e approcci diversi se pur complementari nell’esposizione dei fattori mentali; tuttavia, esse generalmente concordano sul fatto che la mente non sia semplicemente un deposito di informazioni o solo il meccanismo cerebrale, ma che sia i singoli momenti del conoscere che il loro continuum formano il nostro senso del conoscere. Nella psicologia buddhista tibetana ‘mente’ ed ‘eventi mentali’ sono concetti dati per intuizione il cui significato compiuto è fornito da qualcosa che si può comprendere immediatamente. Essere consapevoli del fatto e del dato di un oggetto è mente [sems], e sulla base di questo riferimento oggettivo il divenir coinvolti nell’oggetto attraverso altre funzioni specifiche è attribuito all’azione degli eventi mentali [sems-byung].

Si sarebbe tentati di vedere nella ‘mente’ un centro, una sorta di Io puro che sta in relazione con tutti gli ‘eventi mentali’ dei quali si può dire che sono stati di una certa mente, oppure dato che ‘mente’ è essa stessa un evento, considerarla notata della medesima natura degli eventi che essa tiene assieme. La psicologia buddhista in genere ha respinto l’idea di un centro. In ogni caso, se una certa quantità di termini [sems, sems-byung] sono considerati interrelati in modo caratteristico, ne segue che c’è qualcosa con cui tutti essi stanno in una relazione asimmetrica, anche se nel sistema non c’è nessun centro. La ragione è che ciascuno di essi è un costituente del fatto che sono tutti in relazione reciproca in un determinato modo. È questo fatto che sta in una medesima relazione asimmetrica con tutti gli altri termini.

Questa implicazione ha condotto la filosofia buddhista a distinguere tra ‘mente’ [sems] e mente-in-quanto-mente [sems-nyid] – tra il puro fatto, del quale, a rigore, non possiamo dire nulla, anche se possiamo usare delle parole per denotarlo, e il fatto descritto, che per sua natura è tale che ci siamo formati il concetto di qualcosa e ora attribuiamo le caratteristiche di ciò di cui abbiamo il concetto al puro fatto che non può essere concettualizzato. Facendolo, lo abbiamo già falsificato. Il ‘puro fatto’, secondo la dizione buddhista, è ‘pura consapevolezza o cognizione’ [rig-pa], in contrapposizione al ‘fatto descritto’ o ‘mancanza di pura consapevolezza o ignoranza’ [ma-rig-pa]. Perciò la ‘mente’ [sems], in quanto distinta dalla ‘mente-in-quanto-mente’ [sems-nyid], è equiparata alla mancanza di pura consapevolezza [ma-rig-pa], in quanto opposta alla pura consapevolezza [rig-pa], che in conseguenza di ciò viene facilmente obliterata dalle emozioni e dagli stati mentali negativi. Ma anche con questo malfunzionamento, l’energia originaria o natura interna dell’individuo è ancora presente come ‘discriminazione valutativa’ [shes-rab], cioè la cognizione di un valore, che non è valutazione arbitraria. Essa è in contrasto con i ‘postulati’ [yid-la-byed-pa] che l’Io (esso stesso un postulato o una finzione) costantemente impone su ciò che è.

Il divario tra ‘discriminazione valutativa’ e ‘postulati centrati sull’Io’ illumina così il conflitto tra le due forze principali in opposizione entro ciascuno di noi. Imponendo postulati tentiamo di interferire su tutto e ogni cosa; soprattutto, tendiamo a precluderci la possibilità di vederci come esseri umani unici e totali e, per conseguenza, ci limitiamo a procedere sotto il segno della adeguatezza a un fine, del rendere ogni cosa niente più che un mezzo per i nostri scopi egoistici. Al contrario, mediante la ‘discriminazione valutativa’, saremmo in grado di scoprire il potenziale di accrescimento e di salute che è in noi e di svilupparlo in modo che prevalga in noi l’essere umano ‘vero’, che è quello nel quale tutte le capacità umane sono sviluppate e ben funzionanti.

Il simbolismo astronomico

Lo iato che, secondo le varie interpretazioni, sia occidentali che orientali, separa la pura conoscenza indivisa dal suo momento dialettico, prende forma nel simbolismo astronomico tramite il fenomeno dell’elongazione, la separazione angolare di un pianeta dal Sole come vista dall’osservatorio Terra. L’elongazione massima di Mercurio è di circa 28°. Questo ci porta a considerare simbolicamente la mente, quale strumento di articolazione della realtà, come indissolubilmente legata al suo principio, ma con un grado di libertà tale da fornire una modalità espressiva variabile. Mercurio può formare con il Sole solo l’aspetto di congiunzione. Inoltre si può considerare l’arco di longitudine che va dai 3° agli 8° 30’, lo spazio in cui un pianeta in prossimità del Sole è considerato combusto; e ancora le posizioni in cui il pianeta è sotto i raggi del Sole, ovvero a una distanza longitudinale dall’astro di 17° da una parte e dall’altra, esclusi i gradi della combustione. La congiunzione, quando è molto stretta (dai 17’ ai 30’) , prende il nome secondo gli autori arabi di cazimi, il cuore del Sole, e secondo gli stessi autori si tratta una posizione di forza per il pianeta.

La vicinanza di Mercurio al Sole integra il principio organizzativo mentale con la sua fonte. Nella congiunzione esatta o cazimi abbiamo un’unione piena tra la pura presenza solare e le sue modalità espressive mentali, per cui l’individuo è consapevole del proprio destino e la necessità di sviluppare gli strumenti analitici in modo indipendente viene meno o è fortemente attenuata. Nella combustione, in mancanza della piena integrazione, il rapporto viene disturbato dalla forte radianza solare di prossimità, quasi abbagliato se non appunto ‘bruciato’. Alcuni autori propendono per una valenza negativa dell’aspetto: mancanza di acume e scarsa solidità di giudizio compensate da una propensione agli affari spesso coronata da successo. In base ad altre considerazioni ritengo che il Mercurio bruciato sia ‘attratto’ dal Sole e dal principio sovrano che rappresenta, ma che abbia difficoltà a ‘lasciarsi andare’ e quindi oscilli tra l’affidarsi a una conoscenza di tipo spontaneo e il fare ricorso agli strumenti mentali della discriminazione e dell’analisi; se per altri versi l’aspetto è negativo si può supporre una tendenza al soggettivismo. Se la separazione tra astro e pianeta è portata verso i livelli massimi, oltre i 17° di separazione longitudinale, la mente cerca di trovare un significato più per postulazione che per intuizione; essa si fonda cioè sull’analisi di rapporti e legami basati quasi esclusivamente sugli oggetti interni o esterni della percezione: è un intelletto più pratico o razionale che speculativo e filosofico; è detto pure che in questo caso sia più probabile sviluppare dei meccanismi di fuga o dei disturbi mentali.

Un’ulteriore distinzione viene fatta tra il tipo di congiunzione di Mercurio, inferiore o superiore, rispetto al Sole: la congiunzione inferiore si ha quando il pianeta si trova tra la Terra e il Sole; la congiunzione superiore quando il Sole si trova tra la Terra e il pianeta. Dal punto di vista interpretativo non sono date molte spiegazioni, se non che gli effetti sono più pronunciati nel caso di una congiunzione superiore, quando cioè il pianeta sorge dopo il Sole.

Per quanto riguarda la retrogradazione Rudhyar fa un’interessante affermazione sul fatto che i pianeti in moto diretto seguono il moto vitale bipolare del Sole e della Luna, mentre nella retrogradazione il pianeta si muove “contro” di esso, in un certo senso agendo da contrappunto. Nel caso di Mercurio la retrogradazione non sarebbe un indizio di mente ottusa o debole, bensì indicherebbe la necessità di contrastare il puro vitalismo solare per accedere a uno sviluppo consapevole dei potenziali intellettuali; fermo restando che in certi casi i fattori conflittuali e meno qualificanti possono sempre sorgere.


[1] La Filosofia della Libertà, Milano 2007.

[2] L’epifenomeno e un evento secondario che accompagna lo svolgersi di un fenomeno senza influire su di esso. Si distingue nettamente dall’evento che, in un rapporto causale, viene considerato effetto provocato dai fenomeni che vengono indicati come cause. Esso costituisce quindi un evento accessorio che si sviluppa “a lato” della relazione causale principale: per definizione, è privo di qualsiasi effetto sugli altri fenomeni coinvolti.

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