Un approccio all'astrologia che non segue la narrativa comune

Congresso Astra ottobre 1985 – Riva del Garda

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Essere buoni astrologi, si sa, richiede doti non comuni di perizia. Il consultante, quando non si accontenta della pura gratificazione emotiva, vuole giudizi precisi; magari è un professionista che deve firmare un importante contratto, o la trentenne che vede all’orizzonte il matrimonio. In entrambi i casi ciò che ci attende è una presa di posizione tanto chiarificatrice quanto può permetterlo l’esperienza dell’astrologo, ed è naturale a questo punto che il praticante approfondisca ed aggiorni il suo bagaglio intellettuale, partecipi insomma all’avventura culturale dell’astrologia.

Questa attitudine, così in linea con la concezione del mondo che si auto perfeziona sulla base di un approfondimento analitico dei dati ricevuti, non è forse altrettanto coerente quando si ha a che fare con una disciplina che per la sua natura universalistica sfugge alla sistematicità del pensiero causale e categoriale. Non è mia intenzione criticare l’approccio analitico dell’astrologia e il corollario che ne consegue; tuttavia, è un fatto che pochi sono disponibili a un avvicinamento interiore e personale – quindi totalmente coinvolgente – con ciò che l’astrologia sta a significare.


In genere l’astrologo si attesta sulla considerazione che l’essere umano è una diretta espressione del divino, che la divinità è in noi, e che l’uomo, attraverso i segni e i simboli astrologici, legge e si inscrive in una struttura del mondo di cui è parte integrante. Sembra tutto molto bello, ricco di armonia; l’avvenire non è un mistero e per di più la gente pare molto interessata al nostro lavoro. Dopo qualche tempo, l’astrologo comincia ad avvertire un vago senso di inquietudine. L’astrologia è sempre un’arte superna, questo sì, ma la gente non pare tanto interessata alle altezze spirituali quanto diretta a risolvere i problemi contingenti del benessere fisico, affettivo o finanziario.

Ma cosa veramente non funziona? L’iter di esperienze dell’astrologo ha messo in luce l’interdipendenza dei fenomeni umani e cosmici, certo, e la pratica lo conferma. Ciò che è manchevole non è la dottrina astrologica ma il mediatore umano, che dall’alto del suo ministero perde di vista la realtà contingente. È come avere la patente e non essere capaci di guidare. A che serve acquisire tecniche sofisticate se il rapporto con il consultante rimane comunque banalizzato? Forse si spera di trovare l’aurea regola che darà al possessore la veggenza perfetta. So che molti, consultanti e astrologi, sono colpiti dall’esattezza previsionale di alcuni praticanti, e si chiedono quale misteriosa tecnica sia all’opera.

Ma chi di noi gioirebbe realmente nell’apprendere con dovizia di dettagli il futuro prossimo e venturo? Si decanta il libero arbitrio come bene supremo, ma alla resa dei conti, ai già preesistenti condizionamenti culturali e psicologici, ai retaggi atavici, viene ad aggiungersi il destino ineluttabile, che per voce dell’astrologo – signore del fato – imago pater preclude definitivamente qualsiasi spazio espressivo. In luogo di un mutuo interpenetrarsi si è verificato che l’astrologo si è impadronito dell’astrologia con la forza delle zanne e degli artigli mentali. Dal punto di vista intellettuale si crede di aver capito tutto, di essere sulla strada giusta. Ma la consapevolezza astrologica è l’esatto contrario della penetrazione intellettuale, è caduta di tutti gli schemi che fanno di noi degli interpreti e non esempi vivi della dottrina che andiamo a praticare; consapevolezza è vedere nell’individuo che ci sta di fronte quello che è, non quello che vorremmo che fosse. L’astrologo è in fondo uno specchio che riflette in un linguaggio umano la realtà del cielo di nascita; così la carta del cielo diviene un’occasione veramente unica per dare a ciascun individuo il posto che gli compete al di là delle nostre e delle altrui distorsioni.

La dicotomia astrologo-consultante, dal punto di vista panoramico di un praticante consapevole, non ha ragione di esistere, perché appoggiarsi al ruolo di esaminatore significa automaticamente che vi è qualcuno da giudicare, da discernere, da sintetizzare in categorie; mentre la purezza consiste nel saper cogliere integralmente la natura dell’individuo che ci sta di fronte. Anzi attraverso l’oroscopo si mette a nudo la muta richiesta del consultante, che non mira a finalizzare gli attaccamenti bensì a trovare il proprio veicolo espressivo. Ribaltando i termini del discorso il consultante non si troverà di fronte un oracolo pietrificato, o un giudice ora severo ora benevolo che lo guiderà secondo gli intendimenti di una conoscenza superiore, bensì una persona estremamente aperta, in grado finalmente di dare spazio alle potenzialità rimaste a lungo inespresse. Ricordo le parole di un astrologo tibetano che disse al riguardo: “L’astrologia è un mezzo per uscire momentaneamente dalla situazione esistenziale, per osservare le vicende da un punto di vista panoramico; viste nell’insieme le cose non suscitano particolari desideri o attaccamenti, i giudizi vengono sospesi, così si può rientrare con consapevolezza nel proprio ambito ed agire con estrema efficacia”.


“E che ne sarà dell’astrologo”– qualcuno si domanderà – “se gli astri, l’astrologo e il consultante sono parte integrante di un unico processo vivente?”. Esteriormente tutto può rimanere immutato, non è necessario modificare o cancellare alcunché; l’astrologia rimane un ottimo strumento di indagine, merita di essere approfondita. Ma per chi è disposto a tentare essa diviene un impareggiabile metodo per conservare il proprio stato originario libero da condizionamenti. Tuttavia, soffermarsi a considerare il riflesso del cielo di nascita è un po’ come dire: “Ecco, io sono così. Quello sono io”; si rimane cioè nella condizione dualistica di chi si nutre della propria immagine: soggetto ed esperienza conservano la separabilità.

‘Entrare’ nel proprio oroscopo significa invece trovarsi nella condizione dello specchio, liberi dal condizionamento del riflesso: conoscente e conosciuto, la mente e l’oggetto della percezione, pur conservando la separabilità apparente, si riconoscono come manifestazioni di un’unica natura. Questo mi ricorda la storiella di un monaco Zen, dotto conoscitore di Sūtra, che per dimostrare il proprio stato scrisse: “La mente è come uno specchio, abbi cura che nemmeno un granello di polvere sminuisca la sua lucentezza”. Un altro monaco, contadino e di scarsa cultura ma evidentemente consapevole, ribatté saggiamente: “Non vi è né mente né specchio, dove mai potrebbe posarsi la polvere?”.

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