Introduzione agli insegnamenti ermetici secondo Franz Bardon

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Introduzione

È pensiero comune che la maggiore difficoltà nell’avvicinarsi alle cosiddette dottrine ermetiche consista nel superare la barriera del linguaggio utilizzato nei testi e negli insegnamenti. Non ci riferiamo solamente alle formule alchemiche volutamente oscure di alcune opere antiche, o ai rituali e alle cerimonie praticati e riportati nei manuali dei diversi ordini esoterici. Il vero impedimento è costituito dalla necessità di assimilare simbolicamente il contenuto degli insegnamenti, non soltanto per distinguere il vero dal falso – perché questa strada è lastricata di veri inganni e false promesse – ma anche e soprattutto per indebolire i legami che il pensiero discorsivo intreccia con l’esperienza sensibile.

Il simbolo, termine derivato dal greco συμβάλλω, “mettere insieme, far coincidere”, è un modello di rappresentazione della realtà che potremmo definire “assiale”, perché congiunge – come il filo le perle di una collana – un significato sensibile alle sue rappresentazioni astratte o evocative; un esempio è dato dalla bilancia che richiama l’idea di giustizia.

In campo esoterico vale lo stesso principio, ma applicato ad ordini di realtà che appartengono al piano sottile e spirituale. La difficoltà nell’esprimere in forma di concetto queste parentele simboliche consiste nella mancanza dell’esperienza vivente in merito a tali realtà, che a sua volta origina dalla perdita, da parte dell’occidente, di una filiazione diretta con insegnamenti che abbiano conservato un nucleo tradizionale. Certo, esistono ancora organizzazioni che si fregiano di una patente di tradizione – una per tutte la Massoneria Universale; ma quante sono le logge che potremmo definire ‘operative’ nel senso tecnico del termine, cioè capaci di trasporre lo studio del simbolo su un piano di realizzazione pratica?

Un’alternativa è rivolgersi alle dottrine orientali, che in molti casi vantano una trasmissione ininterrotta di migliaia di anni – come, ad esempio, tutte le tradizioni rifacentesi ai Veda. La difficoltà in questo caso sta nel riuscire ad isolare il senso reale dell’insegnamento dalle necessarie sovrastrutture culturali, che lo ‘vestono’ di una forma che può apparire affascinante ai nostri occhi, ma che rischia di trascinarci in una malia, un sogno ad occhi aperti che ci appaga e blocca la nostra realizzazione.

Quanto detto non vuole essere una critica né tantomeno un giudizio di merito sui diversi approcci alla materia. Chi è sinceramente interessato al significato del proprio esistere sceglie in base alle proprie attitudini, e quello sarà per lui il giusto percorso; ma per giungere a tanto è necessario confrontarsi con un modello di intelletto convenzionale che rende arduo l’accesso al cuore di ciò che si cela dietro le apparenze di māyā, il potere dell’illusione: è il pensiero riflesso.

Il pensiero riflesso, o cerebrale, o lunare, esiste per uno scopo preciso: creare uno schermo che nasconda l’unità, ovvero la realtà organica dell’universo – il tutto intero – dietro la molteplicità; la molteplicità nasce a sua volta dall’apposizione delle categorie spaziotemporali all’esperienza quotidiana. Lo spazio è in funzione del tempo; l’uno implica la separazione, l’altro la durata, ovvero il tempo necessario affinché cambi la posizione relativa tra gli oggetti della percezione: l’unità, senza forma e dimensioni, si contrappone a se stessa creando la prima determinazione dello spazio, la distanza, che nella condizione temporale diviene movimento. Questo ci porta al concetto di tempo lineare o storico: una successione indefinita di stati che si dipana da un passato che non ritorna a un futuro che ancora non esiste. Anche la nostra esperienza come esseri individuati risente di questa costruzione mentale; viviamo separati gli uni dagli altri e abbiamo una durata lungo la freccia del tempo, perché il molteplice è una continua trasformazione, non ammette stasi. Quello che ci assicura continuità nella parabola esistenziale è la memoria, la traccia delle esperienze passate; e non a caso, nel simbolismo astrologico, la memoria è associata alla Luna, la luce riflessa; essa ci rammenta che le nostre esistenze divise sono solo una temporanea illusione tenuta insieme da un ricordo.

Il pensiero simbolico, al contrario di quello riflesso, è un pensiero partecipativo; la successione causale degli eventi, che implica un avvicendamento temporale, lascia il passo al tempo ciclico: la durata si richiude su se stessa, lo spazio diviene un luogo dove i mutamenti non si susseguono linearmente bensì sulla base di un ritmo periodico. Si pensi a una spirale, dove due eventi A e A’ sono su due bracci separati ma nello stesso intervallo di fase, tanto che tracciando una verticale dal punto A’ incontriamo sull’altro braccio il punto A. Da un punto di vista causale non vi è traccia di un rapporto tra i due punti o eventi; ma esiste un sincronismo che li accomuna, che li lega indissolubilmente in quanto partecipi della stessa qualità di tempo; è il principio che è alla base di alcune tecniche previsionali, come i transiti astrologici. La stessa rete di relazioni a-causali vale anche, come abbiamo già osservato, nel legame tra le apparenze sensibili e i loro corrispettivi sottili o i simboli che li rappresentano. In che modo possiamo cogliere questa relazione? Attraverso il principio dell’analogia.

L’analogia, dal greco ἀναλογία, rapporto di similitudine, è un termine che si complementa al simbolo. Per fare un esempio, la letteratura astrologica ci tramanda il nesso simbolico tra il pianeta Giove e l’opulenza, quindi, diciamo che Giove è il simbolo dell’opulenza. Ma non possiamo affermare il contrario, perché è il simbolismo gioviano ad essere il collettore dei vari significati: tendenze oblative, viaggi, religione, filosofia, ecc., tra cui l’opulenza. Tuttavia, l’opulenza è in una relazione di somiglianza con il simbolismo gioviano, per cui possiamo affermare che è in analogia con il pianeta.

Nell’insegnamento ermetico, l’analogia si fa strumento che trasmuta il rapporto concettuale con il simbolo in una realtà vivente; attraverso il riconoscimento analogico ci eleviamo ad un livello in cui le differenze si assottigliano; dove, per rimanere al nostro esempio, Giove diviene un ente-radice che si presenta come una delle idee all’origine della nostra natura. Il senso di tutte le vere tradizioni è proprio questo: passare dal denso al sottile, dal complesso al semplice, dalla separazione all’unione. L’ego, in quanto costrutto che vive slegato dal contesto delle sue rappresentazioni, si riappropria della sua visione e si immerge nel sé, la vita universale che trascende barriere e distinzioni.

La pratica

Esistono pratiche e insegnamenti riconosciuti come più efficaci rispetto ad altri? Porsi la domanda in termini così generali pare lecito, soprattutto se si hanno in mente risultati in tempi ragionevoli; sfortunatamente, già l’ipotizzare un guadagno personale dall’impegno profuso nell’esercizio ermetico è sintomatico di un tentativo, da parte dell’ego, di mantenere il controllo sulla situazione. Lo scopo non è quello di rafforzare gli impulsi egoici, né tantomeno di indebolirli; si tratta piuttosto di espandere il processo di individuazione sino ad integrare almeno in parte la realtà circostante, consentendo l’allentarsi dei vincoli che riferiscono il principio dell’io all’esclusiva sede corporea.

Diverso è il caso di una scelta consapevole basata sulle attitudini personali e non sul “valore” che viene assegnato all’una o all’altra tradizione. Non è escluso – ed è in genere quanto accade – che la ricerca generi sforzi in più direzioni, sino a che non ci si attesta sulla posizione più consona alla propria natura. Tuttavia, è necessario riconoscere la differenza tra la “forma” dell’insegnamento, data principalmente dalla cornice storica e culturale entro cui essa si è consolidata, e la sua “essenza”, avvolta in referenti simbolici dal significato universale. Col tempo, la giusta scelta si rifletterà in una pratica spontanea, integrata con la vita quotidiana, che non sempre richiederà tempi o condizioni particolari di esecuzione.


La preferenza accordata alla disciplina ermetica fondata sugli insegnamenti di Franz Bardon nasce dalla constatazione del loro carattere universale; molte delle pratiche descritte sono assimilabili a quelle in uso presso altre scuole iniziatiche e sono coerenti (con qualche riserva) con gli insegnamenti delle tradizioni spirituali orientali e occidentali, pur non essendovi una filiazione diretta. Nella sua opera di riferimento, Iniziazione all’Ermetica [1], il lavoro di perfezionamento è strutturato in dieci stadi o livelli, ciascuno dei quali è diviso in tre sezioni, dedicate rispettivamente agli esercizi per la formazione fisica, animica e mentale. Al fine di garantire uno sviluppo armonioso delle proprie facoltà, Bardon enfatizza la necessità di lavorare in modo equilibrato sulle tre componenti, senza concedersi preferenze unilaterali. L’impegno quotidiano dedicato alla pratica è direttamente proporzionale all’avanzamento spirituale, ma non si dovrebbe realmente considerare il tutto come una gara; tenacia e sacrificio fanno parte del percorso, assieme alle inevitabili battute d’arresto; gli atteggiamenti precipitosi non condurranno da nessuna parte.

Un ulteriore vantaggio del sistema di Bardon è che esso parte dall’inizio. È difficile trovare un insegnamento dotato di un simile grado di completezza e di organicità, perlomeno nell’ambito delle tradizioni d’occidente. Alla parte teorica, che nel libro è ridotta al minimo, viene in aiuto il lavoro pratico, di modo che lo studente sarà in grado, avanzando nel processo di formazione, di sopperire per conoscenza diretta alle succinte spiegazioni date nel testo.

Un’ultima parola va spesa sulla possibilità di utilizzare tali pratiche in modo autonomo, senza legarle a un percorso, bensì per trarne un beneficio psicofisico. Questo è immaginabile solo con gli esercizi del primo Livello, propedeutici agli esercizi successivi. Bardon su questo punto è molto chiaro; le attività sono pensate per essere eseguite in successione; passare a un Livello superiore senza essersi saldamente stabiliti su quello precedente è solo una perdita di tempo.

Nei paragrafi successivi, per evitare confusione sull’ordine degli esercizi, sarà utilizzata nei titoli una dicitura con le seguenti abbreviazioni: I, II, III … (in numeri romani, indica i vari Livelli); M, A, F (indica l’appartenenza delle pratiche alla formazione Mentale, Animica e Fisica); 1, 2, 3 … (è il numero d’ordine delle pratiche). Ad esempio, IF2 è il secondo esercizio per la formazione Fisica del primo Livello.


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